Il tema della “fiscalità di vantaggio per i beni culturali” richiede una necessaria breve premessa di ordine terminologico, al fine di definire il concetto stesso di fiscalità di vantaggio impiegato nel prosieguo del lavoro.
L’espressione “fiscalità di vantaggio” è divenuta di uso frequente nei diversi contesti del cd. federalismo fiscale nonché, con precipuo riguardo all’ordinamento comunitario, delle misure fiscali favorevoli adottate in un determinato territorio e tali da poter incorrere nel divieto comunitario di aiuti di Stato (1).
Anche rispetto a tali assetti ordinamentali, tuttavia, è stato precisato come non esista una nozione giuridicamente rilevante di fiscalità di vantaggio (2), la quale si presta, per contro, a ricomprendere ogni misura agevolativa, derogatoria rispetto alle ordinarie regole di funzionamento del tributo, che obbedisca ad un finalità (anche) extrafiscale (3).
Il termine sarà, dunque, utilizzato in maniera descrittiva e tale da ricomprendere in esso fattispecie anche strutturalmente disomogenee, identificate per comune natura di essere misure fiscali in senso lato agevolative, rispondenti alla finalità extrafiscale di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale.
La tutela, costituzionalmente garantita, dei beni di interesse storico e artistico può e deve, infatti, trovare nella disciplina fiscale degli stessi, e degli interventi volti alla loro valorizzazione e salvaguardia, un potente strumento di attuazione.
E’ questa la prospettiva che orienta il presente lavoro volto, da una parte, a ricostruire la disciplina fiscale vigente, contenuta in maniera frammentaria, e per ciò solo di difficile sistematizzazione, in plurimi testi normativi, e dall’altra a sollecitare una più attenta meditazione delle esigenze di semplificazione e chiarezza che potrebbero orientare e favorire scelte di investimento in un settore cruciale della economia italiana.
Il lavoro non può che procedere dall’inquadramento costituzionale del tema della conservazione e fruizione dei beni culturali, entro il quale si deve collocare quello settoriale del modo in cui la disciplina fiscale può sostenere interventi di recupero e restauro nonché lo sviluppo di nuovi modelli gestionali dei beni culturali.
Il lavoro di ricerca si completa, tuttavia, di una prospettiva de jure condendo, atteso che da anni, in specie con le linee programmatiche dell’azione del Ministro per i Beni culturali pubblicate nel maggio 2013, si segnala la necessità di rilanciare il tema della fiscalità di vantaggio per i beni culturali nella triplice direzione di favorire il partenariato pubblico privato, anche istituzionalizzato in fondazioni; assicurare adeguata considerazione alle dimore storiche nell’ambito del riordino della disciplina del sistema del catasto; sostenere il mecenatismo e le sponsorizzazioni onde favorire la manutenzione programmata ed i restauri.
La necessità di un “rilancio” del tema della fiscalità di vantaggio, per vero, già denuncia la consapevolezza di un progressivo peggioramento, nel corso degli ultimi anni, del trattamento fiscale riservato al settore.
La ricostruzione, anche storica, della disciplina fiscale di vantaggio acquista, in tale seconda prospettiva, la funzione di evidenziare il progressivo deterioramento del trattamento fiscale dei beni culturali e di sostenere la necessità di un complessivo riordino e ripensamento.
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Il punto di partenza dell’indagine è costituito dalla definizione di beni culturali e dal valore costituzionale della loro tutela nonché dai capisaldi della legislazione attuativa dell’art. 9, comma 2, della Costituzione ed in specie del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
L’obiettivo fondamentale della tutela amministrativa dei beni culturali è stato, tradizionalmente, quello della loro conservazione. Una connotazione della disciplina più remota, ed ante Costituzione, fortemente “difensiva”, come sottolineato da attenta dottrina(4), volta dunque in maniera eminente a garantire la conservazione, l’integrità e la sicurezza del bene, affinchè ne sia assicurata la pubblica fruizione e la preservazione del valore culturale.
In tale prospettiva la disciplina amministrativa dei beni culturali in funzione della loro tutela è essenzialmente volta alla conformazione della proprietà ed a porre limiti alla libertà d’uso degli stessi (5).
Proprio in ragione della pervasività della legislazione di tutela posta dalla legislazione statale è stato elaborato – nella teoria dei beni pubblici – il concetto di “proprietà divisa”, con ciò volendo alludere alla coesistenza sul bene di due diritti a struttura reale, l’uno del privato, l’altro dello Stato, che comporta la coesistenza di poteri e facoltà che reciprocamente si condizionano (6).
Al concetto di tutela, sin dalla introduzione della Carta Costituzionale, si è poi affiancato quello di “valorizzazione”, inteso come potenziamento del valore culturale del bene, anche se la sede di emersione legislativa del concetto di valorizzazione dei beni culturali è stata affatto peculiare, ossia quella del riparto di funzioni amministrative tra Stato e Regioni. L’art. 148, comma 1, lett. e) del d. Lgs. 112/1998 definiva “valorizzazione” ogni “attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ad incrementarne la fruizione”. Così intesa la valorizzazione si esprimeva nella attività non autoritativa delle regioni, volta alla erogazione di sussidi, utilità, servizi ed incentivi alle attività di gestione dei beni culturali (cd. amministrazione di prestazione) (7).
La riforma del titolo V della Costituzione, Legge costituzionale n. 3/2001, pare aver accentuato la divaricazione tra i concetti di tutela e di valorizzazione dei beni culturali, assegnando alla potestà legislativa statale esclusiva la materia della tutela dei beni culturali, ed attribuendo alla potestà legislativa concorrente la valorizzazione dei beni culturali (art. 117, comma 2, lett. S) e 3 comma, Cost.).
La contrapposizione tra i due concetti, che presentano per contro tratti di indubbia complementarietà e profili di ineliminabile sovrapposizione, è stata variamente criticata in dottrina; nondimeno è stata in qualche misura “ricucita” dal Codice dei Beni Culturali attraverso la individuazione del concetto di fruizione e di una serie di strumenti di programmazione negoziata e di accordi interistituzionali per la gestione condivisa dei beni culturali.
Come osservato da alcuni (8), la fruizione del bene intesa come servizio pubblico di offerta del bene alla pubblica fruizione, costituisce l’obiettivo ultimo così della tutela (art. 3 del Codice) così della valorizzazione (art. 6 del Codice)
Tali preliminari indagini di matrice costituzionale ed amministrativistica, consentono di meglio comprendere la ratio delle scelte operate dal legislatore fiscale con riguardo alla tassazione dei beni culturali (sia ai fini delle imposte dirette che indirette).
La tutela dei beni culturali si esplica mediante una rigida regolamentazione di carattere giuridico amministrativo relativa all’uso, alla conservazione ed alla circolazione dei beni culturali, ed importa interventi volti non solo alla individuazione dei beni, ma anche intesa a prevenirne il degrado ed a favorirne la conservazione ed il restauro.
Ne discendono, per i privati proprietari, una serie di obblighi e di vincoli che trovano piena giustificazione nel valore del bene per la collettività, ma che si traducono in un aggravio di oneri e costi.
In particolare, sono posti a carico dei proprietari obblighi di conservazione, divieti di uso incompatibile con il carattere storico o artistico dell’edificio e, comunque, di uso pregiudizievole alla loro conservazione; gli interventi edilizi, di qualsiasi entità, devono essere preventivamente autorizzati previa valutazione della adeguatezza dei progetti proposti alla migliore salvaguardia delle caratteristiche del bene; vi sono limiti alla libera circolazione degli edifici conseguenti al riconoscimento di un diritto di prelazione dello Stato (9).
In diverse occasioni, sia la Corte di Cassazione (ex pluribus, Cass. civ., sez. trib., 16 novembre 2012, n. 20117; Cass., SS.UU., 9 marzo 2011, n. 5518) (10), che la Consulta (Corte Cost., 28 novembre 2003, n. 346), hanno sottolineato nelle loro pronunce che la disciplina fiscale di favore in questo ambito non rappresenta certo un privilegio, bensì una sorta di “equa compensazione” per i pregiudizi che il gravoso complesso di vincoli e di obblighi, previsto dalla legislazione speciale, provoca ai proprietari anche sul piano economico, incidendo conseguentemente sulla relativa capacità contributiva.
Una volta delineato il quadro ordinamentale generale entro il quale inquadrare il tema della fiscalità di vantaggio per i beni culturali, può procedersi alla analisi della disciplina fiscale vigente.