La fiscalità di vantaggio per i beni culturali come strumento per il potenziamento degli interventi di manutenzione, recupero e restauro del patrimonio edilizio storico.
Il tema della “fiscalità di vantaggio per i beni culturali” richiede una necessaria breve premessa di ordine terminologico, al fine di definire il concetto stesso di fiscalità di vantaggio impiegato nel prosieguo del lavoro.
L’espressione “fiscalità di vantaggio” è divenuta di uso frequente nei diversi contesti del cd. federalismo fiscale nonché, con precipuo riguardo all’ordinamento comunitario, delle misure fiscali favorevoli adottate in un determinato territorio e tali da poter incorrere nel divieto comunitario di aiuti di Stato (1).
Anche rispetto a tali assetti ordinamentali, tuttavia, è stato precisato come non esista una nozione giuridicamente rilevante di fiscalità di vantaggio (2), la quale si presta, per contro, a ricomprendere ogni misura agevolativa, derogatoria rispetto alle ordinarie regole di funzionamento del tributo, che obbedisca ad un finalità (anche) extrafiscale (3).
Il termine sarà, dunque, utilizzato in maniera descrittiva e tale da ricomprendere in esso fattispecie anche strutturalmente disomogenee, identificate per comune natura di essere misure fiscali in senso lato agevolative, rispondenti alla finalità extrafiscale di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale.
La tutela, costituzionalmente garantita, dei beni di interesse storico e artistico può e deve, infatti, trovare nella disciplina fiscale degli stessi, e degli interventi volti alla loro valorizzazione e salvaguardia, un potente strumento di attuazione.
E’ questa la prospettiva che orienta il presente lavoro volto, da una parte, a ricostruire la disciplina fiscale vigente, contenuta in maniera frammentaria, e per ciò solo di difficile sistematizzazione, in plurimi testi normativi, e dall’altra a sollecitare una più attenta meditazione delle esigenze di semplificazione e chiarezza che potrebbero orientare e favorire scelte di investimento in un settore cruciale della economia italiana.
Il lavoro non può che procedere dall’inquadramento costituzionale del tema della conservazione e fruizione dei beni culturali, entro il quale si deve collocare quello settoriale del modo in cui la disciplina fiscale può sostenere interventi di recupero e restauro nonché lo sviluppo di nuovi modelli gestionali dei beni culturali.
Il lavoro di ricerca si completa, tuttavia, di una prospettiva de jure condendo, atteso che da anni, in specie con le linee programmatiche dell’azione del Ministro per i Beni culturali pubblicate nel maggio 2013, si segnala la necessità di rilanciare il tema della fiscalità di vantaggio per i beni culturali nella triplice direzione di favorire il partenariato pubblico privato, anche istituzionalizzato in fondazioni; assicurare adeguata considerazione alle dimore storiche nell’ambito del riordino della disciplina del sistema del catasto; sostenere il mecenatismo e le sponsorizzazioni onde favorire la manutenzione programmata ed i restauri.
La necessità di un “rilancio” del tema della fiscalità di vantaggio, per vero, già denuncia la consapevolezza di un progressivo peggioramento, nel corso degli ultimi anni, del trattamento fiscale riservato al settore.
La ricostruzione, anche storica, della disciplina fiscale di vantaggio acquista, in tale seconda prospettiva, la funzione di evidenziare il progressivo deterioramento del trattamento fiscale dei beni culturali e di sostenere la necessità di un complessivo riordino e ripensamento.
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Il punto di partenza dell’indagine è costituito dalla definizione di beni culturali e dal valore costituzionale della loro tutela nonché dai capisaldi della legislazione attuativa dell’art. 9, comma 2, della Costituzione ed in specie del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
L’obiettivo fondamentale della tutela amministrativa dei beni culturali è stato, tradizionalmente, quello della loro conservazione. Una connotazione della disciplina più remota, ed ante Costituzione, fortemente “difensiva”, come sottolineato da attenta dottrina(4), volta dunque in maniera eminente a garantire la conservazione, l’integrità e la sicurezza del bene, affinchè ne sia assicurata la pubblica fruizione e la preservazione del valore culturale.
In tale prospettiva la disciplina amministrativa dei beni culturali in funzione della loro tutela è essenzialmente volta alla conformazione della proprietà ed a porre limiti alla libertà d’uso degli stessi (5).
Proprio in ragione della pervasività della legislazione di tutela posta dalla legislazione statale è stato elaborato – nella teoria dei beni pubblici – il concetto di “proprietà divisa”, con ciò volendo alludere alla coesistenza sul bene di due diritti a struttura reale, l’uno del privato, l’altro dello Stato, che comporta la coesistenza di poteri e facoltà che reciprocamente si condizionano (6).
Al concetto di tutela, sin dalla introduzione della Carta Costituzionale, si è poi affiancato quello di “valorizzazione”, inteso come potenziamento del valore culturale del bene, anche se la sede di emersione legislativa del concetto di valorizzazione dei beni culturali è stata affatto peculiare, ossia quella del riparto di funzioni amministrative tra Stato e Regioni. L’art. 148, comma 1, lett. e) del d. Lgs. 112/1998 definiva “valorizzazione” ogni “attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ad incrementarne la fruizione”. Così intesa la valorizzazione si esprimeva nella attività non autoritativa delle regioni, volta alla erogazione di sussidi, utilità, servizi ed incentivi alle attività di gestione dei beni culturali (cd. amministrazione di prestazione) (7).
La riforma del titolo V della Costituzione, Legge costituzionale n. 3/2001, pare aver accentuato la divaricazione tra i concetti di tutela e di valorizzazione dei beni culturali, assegnando alla potestà legislativa statale esclusiva la materia della tutela dei beni culturali, ed attribuendo alla potestà legislativa concorrente la valorizzazione dei beni culturali (art. 117, comma 2, lett. S) e 3 comma, Cost.).
La contrapposizione tra i due concetti, che presentano per contro tratti di indubbia complementarietà e profili di ineliminabile sovrapposizione, è stata variamente criticata in dottrina; nondimeno è stata in qualche misura “ricucita” dal Codice dei Beni Culturali attraverso la individuazione del concetto di fruizione e di una serie di strumenti di programmazione negoziata e di accordi interistituzionali per la gestione condivisa dei beni culturali.
Come osservato da alcuni (8), la fruizione del bene intesa come servizio pubblico di offerta del bene alla pubblica fruizione, costituisce l’obiettivo ultimo così della tutela (art. 3 del Codice) così della valorizzazione (art. 6 del Codice)
Tali preliminari indagini di matrice costituzionale ed amministrativistica, consentono di meglio comprendere la ratio delle scelte operate dal legislatore fiscale con riguardo alla tassazione dei beni culturali (sia ai fini delle imposte dirette che indirette).
La tutela dei beni culturali si esplica mediante una rigida regolamentazione di carattere giuridico amministrativo relativa all’uso, alla conservazione ed alla circolazione dei beni culturali, ed importa interventi volti non solo alla individuazione dei beni, ma anche intesa a prevenirne il degrado ed a favorirne la conservazione ed il restauro.
Ne discendono, per i privati proprietari, una serie di obblighi e di vincoli che trovano piena giustificazione nel valore del bene per la collettività, ma che si traducono in un aggravio di oneri e costi.
In particolare, sono posti a carico dei proprietari obblighi di conservazione, divieti di uso incompatibile con il carattere storico o artistico dell’edificio e, comunque, di uso pregiudizievole alla loro conservazione; gli interventi edilizi, di qualsiasi entità, devono essere preventivamente autorizzati previa valutazione della adeguatezza dei progetti proposti alla migliore salvaguardia delle caratteristiche del bene; vi sono limiti alla libera circolazione degli edifici conseguenti al riconoscimento di un diritto di prelazione dello Stato (9).
In diverse occasioni, sia la Corte di Cassazione (ex pluribus, Cass. civ., sez. trib., 16 novembre 2012, n. 20117; Cass., SS.UU., 9 marzo 2011, n. 5518) (10), che la Consulta (Corte Cost., 28 novembre 2003, n. 346), hanno sottolineato nelle loro pronunce che la disciplina fiscale di favore in questo ambito non rappresenta certo un privilegio, bensì una sorta di “equa compensazione” per i pregiudizi che il gravoso complesso di vincoli e di obblighi, previsto dalla legislazione speciale, provoca ai proprietari anche sul piano economico, incidendo conseguentemente sulla relativa capacità contributiva.
Una volta delineato il quadro ordinamentale generale entro il quale inquadrare il tema della fiscalità di vantaggio per i beni culturali, può procedersi alla analisi della disciplina fiscale vigente.
LE IMPOSTE SUI DIRETTE. IL REDDITO DEI BENI SOTTOPOSTI A VINCOLO.
In ordine al reddito dei beni vincolati, sarà necessario, pur sommariamente, procedere ad una preliminare analisi della evoluzione storica della disciplina fiscale di favore, giacchè, in una prospettiva de jure condendo, non potrà non evidenziarsi come le scelte del legislatore fiscale, che hanno delineato l’attuale assetto della disciplina fiscale de quo, appaiano in qualche misura contraddittorie rispetto alle esigenze di tener in adeguato conto la gravosità degli obblighi che comporta l’assoggettamento ai vincoli di tutela, ed abbiano condotto, per altro verso, a creare un sistema che presenta particolari difficoltà applicative, per la sua complessità ed il coinvolgimento – pur con i ripetuti tentativi di semplificazione succedutisi nel tempo – di soggetti diversi (Agenzia delle Entrate e Sopraintendenze), che comporta rischi di disomogeneità di trattamento.
Ai fini delle imposte sui redditi, l’art. 11, comma 2, della L. n. 413/1991, stabiliva, che “in ogni caso, il reddito degli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico (…) è determinato mediante l’applicazione della minore tra le tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato”.
Tale disposizione aveva dato adito a molte discussioni. Inizialmente, l’Amministrazione finanziaria aveva sostenuto che la più bassa delle tariffe d’estimo della zona si applicasse solo agli immobili non locati; successivamente, ha riconosciuto che, per i beni appartenenti a persone fisiche o Enti non commerciali, il medesimo criterio potesse valere (anche) nel caso di locazione, a prescindere dal canone e dalla destinazione dell’immobile; da ultimo, aveva ritenuto di poter estendere il regime di favore anche alle imprese (singole o societarie), ma solo limitatamente ai beni (immobili) d’investimento (e, dunque, con l’esclusione di quelli strumentali e dei beni-merce).
Distinzioni e cautele – quelle sopra richiamate – che mal si conciliavano con l’orientamento della Corte Costituzionale, secondo cui: “nessun dubbio può sussistere sulla legittimità della concessione di un beneficio fiscale relativo agli immobili di interesse storico o artistico, apparendo tale scelta tutt’altro che arbitraria o irragionevole, in considerazione del complesso di vincoli ed obblighi gravanti per legge sulla proprietà di siffatti beni quale riflesso della tutela costituzionale loro garantita dall’art. 9 Cost., comma 2”(11). Distinzioni e cautele che contrastavano anche con le condizioni e motivazioni che la Corte di Cassazione aveva espresso a Sezioni Unite; infatti, in linea con le valutazioni della Consulta, la Suprema Corte aveva affermato che il regime di tassazione degli immobili in questione, ai fini delle imposte sui redditi, non integra una agevolazione, ma una specialità: è, cioè, un regime tributario “sostitutivo” di quello ordinario. Tesi, questa, ribadita, come innanzi visto, dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (12).
Un regime fiscale “sostitutivo” è, infatti, un regime calibrato esclusivamente sulla natura del bene che ne costituisce oggetto e non è influenzato dalla qualità del soggetto proprietario ovvero dalla destinazione d’uso dello stesso.
Questa era la situazione fino al 31 dicembre 2011.
Sennonché, il citato art. 11 della L. n. 413/1991, recante il predetto “regime speciale” è stato inopinatamente abrogato dall’art. 4, comma 5-quater, del D.L. n. 16/2012 a partire dal periodo di imposta 2012.
E’, dunque, venuto meno il precedente “regime tributario sostitutivo” e, al suo posto, sono state introdotte una serie di agevolazioni che si “innestano” nel regime tributario ordinario. Le regole di determinazione dell’imponibile non sono più sostituite in funzione della natura vincolata del bene, ma restano in vigore, aprendosi solo ad una limitata disciplina di favore. Tale radicale “cambio di prospettiva” ha comportato non solo una disciplina significativamente più severa e spesso penalizzante, ma ha cambiato la stessa “natura” del “regime di favore” da regime speciale a regime agevolato (13).
La nostra legislazione è diventata, in tal guisa, ancora più articolata e complessa.
Il nuovo trattamento tributario è diverso a seconda che gli immobili siano posseduti e utilizzati dal proprietario (o dall’avente un diritto reale sugli stessi) o siano concessi in locazione:
• nel caso di immobili non locati:
– per le persone fisiche la tassazione ai fini Irpef è “assorbita” da quella ai fini Imu;
– per le società e gli enti non commerciali, il reddito medio ordinario è costituito dalla rendita catastale rivalutata ridotta del 50% e “non si applica comunque l’art. 41”, cioè la maggiorazione di un terzo (cfr. artt. 90 e 144 del Tuir);
• nel caso di immobili locati: sia le persone fisiche che gli enti non commerciali – e anche le imprese (e soprattutto le società), per gli “immobili patrimonio” – sono assoggettati a una imposizione su una base imponibile determinata nella misura maggiore fra quella del canone risultante dal contratto di locazione al netto della riduzione forfettaria del 35% (anziché nella ordinaria misura del 5%) e la rendita catastale rivalutata ridotta del 50% . Nel caso di canone concordato, ai sensi della legge 431/1998, è prevista una ulteriore riduzione del 30%.
L’Imu sostituisce, oltre che l’Ici, anche l’Irpef (e le relative addizionali) sui redditi fondiari dei beni non locati (per i quali risulta dovuta, di regola, la sola Imu).
La base imponibile dell’Imu è costituita dal “valore dell’immobile”, che, per i fabbricati iscritti in catasto, è determinato applicando, all’ammontare della rendita risultante in catasto al 1° gennaio dell’anno di riferimento (rivalutata del 5%), i moltiplicatori previsti dal citato art. 13 (nel caso di fabbricati classificati nel gruppo catastale “A” – esclusa la categoria A/10 – il moltiplicatore è pari a 160).
I fabbricati di interesse storico o artistico, ai sensi dell’art. 13 comma 3 D.L. 201/2011 (L 214/2011) godono della riduzione del 50% della base imponibile; su questa si applicano le aliquote dello 0,76%, dello 0,4% o quelle modificate – in aumento o in diminuzione, entro determinati limiti – dai Comuni.
Anche ai fini IMU trova applicazione l’esenzione, già prevista per l’ICI, per i fabbricati destinati ad usi culturali di cui all’art. 5 bis DPR 601/1973, ossia fabbricati totalmente adibiti a sedi, aperte al pubblico, di musei, biblioteche, emeroteche di privati, enti pubblici, fondazioni e istituzioni, quando al possessore non derivi alcun reddito dalla utilizzazione dell’immobile.
LE IMPOSTE INDIRETTE.
Anche il regime delle imposte sui trasferimenti immobiliari ha subito un significativo deterioramento nella legislazione più recente.
In ordine ai trasferimenti a titolo di successione, la presenza del vincolo all’atto della apertura della successione determina il beneficio della esclusione del bene dall’attivo ereditario, sul quale va determinata l’imposta dovuta. La fruizione del detto beneficio comporta, peraltro, la necessità che il vincolo già sussista al momento dell’apertura della successione, che siano stati regolarmente assolti gli obblighi di protezione e conservazione, che sia stato denunciato alla Sopraintendenza il trasferimento di proprietà. A tal fine deve essere allegata alla denuncia di successione una attestazione conforme rilasciata dall’Autorità preposta alla tutela del vincolo, attualmente producibile anche in forma di autocertificazione vistata dalla competente Sopraintendenza, dalla quale risulti l’esistenza del vincolo, che non sono stati eseguiti opere o mutamenti di destinazione non autorizzati, che siano stati rispettati gli obblighi di conservazione e manutenzione.
Se, per contro, il bene non è vincolato al momento dell’apertura della successione è possibile ottenere una riduzione del 50% della imposta eventualmente dovuta, previa esibizione, anche in tal caso, di una attestazione della Sopraintendenza preposta che certifichi l’esistenza delle caratteristiche di cui alla normativa in materia di beni culturali e che sia in corso la procedura per l’apposizione del vincolo (14).
In caso di donazioni o atti gratuiti non donativi, indipendentemente dal valore del bene o dal beneficiario dell’atto, risulta applicabile ai beni sottoposti a vincolo solo l’imposta in misura fissa (art. 59 T.U. 346/1990), mentre per i beni non vincolati ma aventi le caratteristiche di bene culturale, sarà possibile una riduzione del 50% dell’imposta, al pari di quanto avviene in caso di imposta di successione (15).
Nel caso di trasferimenti a titolo oneroso, invece, il trattamento fiscale dei beni sottoposti a vincolo è significativamente peggiorato a far data dall’1 gennaio 2014, ad esito delle novità introdotte dal D. Lgs. 23/2011 (art. 10) e del D.L. 104/2013 (art. 26).
Le modifiche introdotte alla tariffa allegata al T.U. 131/1986 hanno fatto venir meno l’agevolazione in passato prevista per il pagamento della imposta di registro sui trasferimenti di beni sottoposti a vincolo culturale (determinata nella misura ridotta del 3% del valore in luogo della misura ordinaria del 7%), assimilando il trattamento fiscale del trasferimento degli immobili di interesse storico-artistico a quello ordinario e prevedendo, pertanto, il pagamento della imposta di registro nella misura del 9% del valore, con un minimo pari ad € 1.000,00. Sui detti trasferimenti le imposte ipotecaria e catastale saranno, invece, determinate non più in misura proporzionale, bensì nella misura fissa di € 50,00.
Non solo, dunque, un significativo incremento della imposizione sugli atti di trasferimento a titolo oneroso, ma anche la definitiva abrogazione di ogni agevolazione per gli immobili di interesse storico – artistico, che contraddice il riconoscimento giurisprudenziale della incidenza sulla capacità contributiva dei costi che i proprietari sono tenuti a sostenere per preservare le caratteristiche dell’immobile.
Fiscalità di vantaggio e interventi sui beni di interesse storico – artistico.
L’altro aspetto della fiscalità di vantaggio per i beni culturali che è necessario affrontare è quello direttamente connesso agli interventi di salvaguardia, sia che essi siano attuati dai proprietari o dai possessori di essi, sia che siano attuati da soggetti terzi rispetto ai proprietari o ai detentori. In tale ultima prospettiva, peraltro, lo strumento fiscale potrebbe rappresentare un potente incentivo a consolidare il ruolo del settore privato nell’ambito dell’arte e della cultura. Proprio in tale direzione, peraltro e come meglio appresso si dirà, si è mosso il legislatore del cd. decreto cultura (d.l. 83 del 31 maggio 2014), istituendo misure di favore, temporanee, volte a favorire il mecenatismo nel settore culturale.
In ordine al trattamento fiscale delle spese sostenute dai soggetti obbligati alla manutenzione, alla protezione o al restauro dei beni vincolati, il regime di favore è fruibile dai soggetti che vantano un titolo giuridico che gli attribuisca la proprietà, il possesso o la detenzione del bene oggetto di intervento (16).
Reddito delle persone fisiche e degli enti non commerciali.
L’art. 15 lett. G) TUIR prevede una detrazione di imposta pari al 19% delle spese “effettivamente rimaste a carico” relative alla manutenzione, al restauro e alla protezione delle cose vincolate ai sensi delle legge 1089/193 e del d.P.R. 1409/1963 (ma il richiamo deve estendersi ai vincoli di cui al nuovo codice dei beni culturali d. lgs. 42/2004).
La detta detrazione è cumulabile con quella prevista per le spese di ristrutturazione edilizia (36-50%), ma in tal caso la detrazione è ridotta alla metà
Redditi delle imprese soggette ad ires
L’art. 100 lett. E) prevede la deducibilità delle suddette spese senza limiti e secondo il principio di cassa.
Le condizioni per la fruibilità della detrazione sono:
1. la necessità della spesa, che deve risultare da apposita certificazione rilasciata dalla Sopraintendenza;
2. la congruità della spesa, che deve essere accertata d’intesa con il competente ufficio del territorio.
Peraltro nella prassi dei vari uffici permangono rilevanti difformità sia in ordine alla procedura da seguire sia in ordine ai criteri di giudizio circa l’ammissibilità e la congruità degli interventi.
Anche per rimediare a tali difformità e difficoltà applicative è intervenuto il d.l. 201 del 2011 (riduzione degli adempimenti amministrativi per le imprese), il cui art. 40, al comma 9, ha stabilito che “la documentazione e le certificazioni richieste ai fini delle agevolazioni fiscali in materia di beni ed attività culturali sono sostituite da apposita dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà presentata dal richiedente al Ministero per i beni e le attività culturali, relativa alle spese effettivamente sostenute per lo svolgimento degli interventi e delle attività cui le spese si riferiscono”.
L’intervento normativo, apprezzabile nelle intenzioni, presenta tuttavia controversi profili applicativi.
Parrebbe, infatti, anche leggendo le istruzioni per la compilazione delle dichiarazioni dei redditi, che l’autocertificazione possa esplicare efficacia solo con riferimento al requisito della necessità delle spese – requisito che di regola viene attestato dal MIBAC, mentre il giudizio sulla congruità delle spese, rimesso all’Ufficio del Territorio, parrebbe rimanere di sua competenza e non sarebbe sostituibile attraverso procedure semplificate.
Quanto alle spese sostenute da terzi, vale rammentare come il codice dei beni culturali (D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), all’art. 6, preveda la partecipazione dei soggetti privati alla valorizzazione dei beni culturali e contempli (artt. 115 e 117) un’ampia gamma di concessioni e convenzioni per la gestione, da parte dei privati, di attività di valorizzazione e di servizi per il pubblico.
Il legislatore pare, dunque, aver inteso favorire apporti di capitali e professionalità da parte di soggetti privati nella gestione e valorizzazione del patrimonio culturale, in un momento storico in cui il tradizionale strumento della sovvenzione diretta da parte dello Stato risente di un significativo e considerevole ridimensionamento (17).
Gli oneri e i costi degli interventi di salvaguardia dei beni artistico-culturali (e, in particolare, degli edifici storici), possono essere sostenuti anche da soggetti non proprietari (né possessori, né detentori) di quei beni attraverso:
• le liberalità (propriamente dette) o il mecenatismo (che è una particolare forma di liberalità) cui ricorrono, di solito, le persone fisiche “private” (o gli Enti non commerciali), ma anche, talvolta, le imprese;
• la sponsorizzazione (che è una forma di promozione giuridicamente più complessa), cui ricorrono, con una certa frequenza le imprese (individuali e, soprattutto, societarie, anche di grandi dimensioni e famose).
Quanto alle liberalità, l’art. 15, lettera h), del D.P.R. n. 917/1986, prevede la detraibilità (nella misura del 19%), delle erogazioni liberali fatte da persone fisiche o Enti non commerciali a favore dello Stato, delle Regioni, degli Enti locali territoriali, di Enti o Istituzioni pubbliche, Fondazioni o Associazioni, che svolgono direttamente o promuovono (senza scopo di lucro) l’attività di studio, ricerca e documentazione di rilevante valore culturale e artistico; l’art. 100 del D.P.R. n. 917/1986 prevede la deducibilità, nella determinazione del reddito (imponibile) di impresa, di alcune erogazione liberali; l’art. 14 del d.l. 14 marzo 2005, n. 35 riconosce, a certe condizioni ed entro determinati limiti, la deducibilità delle erogazioni liberali effettuate a favore di Onlus o di Asp, nonché di fondazioni e associazioni riconosciute, aventi per oggetto statutario la tutela, la promozione e la valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e paesaggistico (18).
La L. 512 del 1982 ha introdotto nella disciplina delle imposte sul reddito una disposizione diretta a riconoscere la deducibilità delle erogazioni liberali effettuate a determinati soggetti pubblici e privati a sostegno di interventi sui beni culturali e di manifestazioni culturali. Successivamente, il beneficio ai fini Irpef è stato trasformato in detrazione d’imposta, nella misura del 27%, poi ridotta al 22%, e, infine, al 19%.
L’art. 15, lettera h), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – Testo Unico delle Imposte sui Redditi, prevede, infatti, una detrazione Irpef del 19% delle erogazioni liberali in denaro a favore dello Stato, delle regioni e degli altri enti locali territoriali, enti o istituzioni pubbliche, comitati organizzatori appositamente istituiti con decreto del Ministero dei beni e attività culturali, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro che svolgono o promuovono, organizzano e realizzano attività culturali, effettuate in base ad apposita convenzione, per l’acquisto, la manutenzione, la protezione e il restauro delle cose, mobili e immobili, di interesse culturale, nonché le erogazioni effettuate per l’organizzazione di mostre e di esposizioni di rilevante interesse scientifico-culturale delle cose anzidette, e per gli studi e le ricerche eventualmente a tal fine necessari, nonché per ogni altra manifestazione di rilevante interesse scientifico-culturale anche ai fini didattico-promozionali, ivi compresi gli studi, le ricerche, la documentazione e la catalogazione, e le pubblicazioni relative ai beni culturali.
Tali iniziative culturali devono essere autorizzate dal MIBAC (Ministero per i Beni e le Attività Culturali), che approva la previsione di spesa, il rendiconto e stabilisce i tempi di utilizzo delle erogazioni e ne controlla l’impiego. Il Ministero comunica, altresì, entro il 31 marzo di ogni anno, al Ministero delle Finanze l’elenco dei soggetti erogatori e le erogazioni effettuate nell’anno precedente.
L’art. 40, comma 9, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214, al fine di semplificare le procedure amministrative in materia, ha previsto che la documentazione e le certificazioni attualmente richieste ai fini del conseguimento delle agevolazioni di cui all’art. 15, comma 1, lettere g) e h), e all’art. 100, comma 2, lettere e) ed f) del Testo Unico delle imposte sui redditi – D.P.R. n. 917 del 1986, sono sostituite da un’apposita dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, presentata dal richiedente al MIBAC, ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. n. 445 del 2000, relativamente alle spese effettivamente sostenute per lo svolgimento delle attività cui il beneficio si riferisce.
In relazione a ciò, le istruzioni al Modello UNICO di dichiarazione per i redditi dell’anno 2012 chiariscono che “La documentazione richiesta per fruire della detrazione è sostituita da una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, presentata al Ministero per i beni e le attività culturali e relativa alle spese effettivamente sostenute per le quali si ha diritto alla detrazione”.
Da parte sua, il MIBAC, con la circ. n. 222 dell’11 giugno 2012, ha rivisto l’iter procedimentale da seguire per usufruire dell’agevolazione in commento, prevedendo in particolare che “al termine dell’iniziativa culturale” il soggetto beneficiario presenta alla Soprintendenza una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà relativa alle spese effettivamente sostenute per lo svolgimento delle attività cui i benefici si riferiscono.
Quindi, la Soprintendenza, valutata la documentazione ed effettuate le verifiche opportune, concede l’autorizzazione all’iniziativa culturale, approva il preventivo di spesa e invia il preventivo di spesa appositamente vistato al soggetto erogatore e al soggetto beneficiario dell’erogazione. Se l’erogazione liberale è finalizzata a un’iniziativa culturale, l’autorizzazione non può prescindere dall’acquisizione del parere del competente comitato di settore del Consiglio superiore per i beni culturali e paesaggistici, da richiedersi tramite le relative direzioni generali competenti per settore. La circolare citata precisa, infine, che l’invio del preventivo di spesa vistato dalla Soprintendenza al soggetto erogatore costituisce autorizzazione alla richiesta di detrazione fiscale.
Analoga disposizione agevolativa è prevista per i soggetti titolari di reddito d’impresa dall’art. 100, lettera f), dello stesso T.U., con la differenza che per questi è prevista l’integrale deducibilità dal reddito delle erogazioni effettuate.
Altra difformità tra le due disposizioni consiste nella possibilità – ammessa per persone fisiche ed enti non commerciali e non, invece, per i soggetti titolari di reddito d’impresa – di portare in detrazione non solo erogazioni in denaro, ma anche erogazioni in natura. Infatti, la detrazione del 19% è riconosciuta anche “per il costo specifico o, in mancanza, per il valore normale dei beni ceduti gratuitamente”, in base ad apposita convenzione, ai soggetti e per le attività di interesse culturale sopradescritte (art. 15, lettera h-bis) del T.U.), mentre analoga disposizione non è contenuta nella disciplina del reddito d’impresa.
Infine, la l. n. 342 del 2000 (c.d. Legge Melandri) ha introdotto una disposizione agevolativa, oggi contenuta nell’art. 100, comma 2, lettera m) del Testo Unico delle imposte sui redditi, che riconosce ai soggetti titolari di reddito d’impresa la deducibilità dal reddito delle erogazioni liberali in denaro a favore dello Stato, regioni ed enti locali territoriali, enti e istituzioni pubbliche, fondazioni e associazioni legalmente riconosciute, per lo svolgimento dei loro compiti istituzionali e per la realizzazione di programmi culturali nel settore dei beni culturali.
A tal fine, è prevista una particolare procedura.
Il MIBAC individua periodicamente i soggetti che possono beneficiare delle erogazioni e determina le quote assegnate a ciascun ente beneficiario.
È previsto, inoltre, che, nel caso in cui le somme complessivamente erogate abbiano superato la somma allo scopo indicata o determinata, i singoli soggetti beneficiari che abbiano ricevuto somme di importo maggiore della quota assegnata dal MIBAC, versano allo Stato un importo pari al 37% della differenza.
Per beneficiare della deduzione, i soggetti erogatori devono dichiarare per via telematica tramite un apposito software all’Agenzia delle Entrate entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello dell’erogazione, l’ammontare delle erogazioni effettuate e l’elenco dei soggetti beneficiari. Questi ultimi, da parte loro, devono comunicare al MIBAC, entro lo stesso termine, l’ammontare delle erogazioni ricevute e dei soggetti eroganti. Quindi il MIBAC comunica entro il 31 marzo all’Agenzia delle Entrate l’elenco dei soggetti erogatori aventi titolo a beneficiare dell’agevolazione e l’ammontare delle erogazioni effettuate.
Il sistema delle deducibilità delle erogazioni a favore del settore culturale è stato successivamente integrato ad opera del D.L. n. 35 del 2005, convertito dalla L. n. 80 dello stesso anno, in materia di ONLUS e Terzo Settore. Ai sensi dell’art. 14, commi da 1 a 6, di detto decreto, possono essere dedotte dal reddito le erogazioni liberali (in denaro o in natura) effettuate da persone fisiche o da enti soggetti all’imposta sul reddito delle società in favore di ONLUS (Organizzazioni non lucrative di utilità sociale) disciplinate dall’art. 10 del D. Lgs. n. 460 del 1997, nonché di associazioni di promozione sociale iscritte nell’apposito registro di cui all’art. 7 della L. 383 del 2000, in favore di fondazioni e associazioni riconosciute aventi per oggetto statutario la tutela, promozione e valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e paesaggistico.
Tali erogazioni sono deducibili dal reddito complessivo del soggetto erogante nel limite del 10 % del reddito complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000 euro annui.
Il beneficio è alternativo agli altri analoghi fin qui esaminati. Infatti, la deducibilità di dette erogazioni non può cumularsi con ogni altra agevolazione fiscale prevista a titolo di deduzione o di detrazione di imposta da altre disposizioni di legge. Pertanto, se il soggetto erogatore usufruisce di detta deduzione non potrà usufruire, per analoghe erogazioni effettuate a beneficio degli stessi soggetti indicati nel comma 1 dell’art. in commento, di deduzioni o detrazioni fiscali previste da altre norma agevolative.
La non cumulabilità prescinde dall’importo delle liberalità erogate. Ove, ad esempio, il contribuente eroghi, anche a più beneficiari, liberalità per un valore superiore al limite massimo consentito di 70.000 euro, non potrà avvalersi, per la parte eccedente, del beneficio della deduzione o detrazione ai sensi di altre disposizioni di legge.
Resta, peraltro, ferma per l’erogante, titolare di reddito d’impresa, in relazione alle liberalità erogate, la facoltà di avvalersi delle deduzioni previste dall’art. 100, comma 2, lettera m), in alternativa alla norma in commento.
Il sistema delle agevolazioni appena descritto risente, come evidente, non solo di un progressivo decremento della quota delle erogazioni liberali detraibili, ma di una complesso sistema di autorizzazioni e di verifiche di congruità delle spese per gli interventi, che vede parallelamente coinvolte Sopraintendenze e Agenzie fiscali, che – nonostante gli sforzi di semplificazione compiuti negli ultimi anni dal legislatore – determina aggravi e rischi di trattamenti disomogenei.
Un incentivo al mecenatismo: il cd. ART BONUS di cui al d.l. n. 83 del 31 maggio 2014.
Con l’intento di rilanciare lo sviluppo della cultura e del turismo e di favorire gli apporti di privati a sostegno degli interventi di valorizzazione dei beni culturali, il cd. “decreto cultura”, d.l. 31 maggio 2014, convertito con modificazioni nella legge 29 luglio 2014, n. 106, ha introdotto misure fiscali temporanee volte a favorire le erogazioni liberali in denaro nel settore della cultura e dello spettacolo.
Lo strumento giuridico individuato è quello del credito di imposta, in misura variabile a seconda del periodo di imposta considerato (19). In particolare la norma dispone che il credito fruibile sia pari al 65% della erogazione liberale effettuata per gli anni di imposta 2014 e 2015 e del 50% della medesima erogazione per l’anno di imposta 2016.
L’agevolazione riguarda esclusivamente le erogazioni in denaro che abbiano una specifica finalità, ovvero quella di finanziare: i. interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici; ii. sostenere istituti e luoghi di cultura pubblici (e dunque, come chiarito nella prima Circolare dell’Agenzia delle Entrate di interpretazione del nuovo istituto (20), musei, biblioteche, aree e parchi archeologici, complessi monumentali, come definiti dall’art. 101 del Codice dei Beni Culturali); iii. realizzazione di nuove strutture ovvero restauro o potenziamento di quelle esistenti, delle fondazioni lirico sinfoniche o di enti ed istituzioni pubbliche che, senza scopo di lucro, svolgano esclusivamente attività nello spettacolo.
Il comma 2 precisa, poi, che l’introduzione della misura del credito di imposta per le erogazioni liberali in denaro determina la temporanea disapplicazione delle norme di cui all’art. 15, comma 1, lett. h) e i), ai fini Irpef, ed all’art. 100, comma 2, lett. f) e g), ai fini ires, senza possibilità, dunque, di cumulo delle misure agevolative (21).
La sovrapposizione tra le norme TUIR e l’art. 1 del d.l. 83/2014 non pare, tuttavia, integrale, posto che, come osservato, la detrazione del 19% ai fini irpef è ammessa non solo per le liberalità in denaro ma anche per quelle in natura. Per queste ultime (22), al pari che per le erogazioni per l’acquisto di beni culturali, dunque, resteranno applicabili le norme del TUIR.
Quanto all’ambito di applicazione soggettivo della norma, essa costituisce una interessante sperimentazione di introduzione di un regime fiscale uniforme per i soggetti irpef e ires, a differenza delle disposizioni del TUIR innanzi richiamate, infatti, il credito di imposta si applica a beneficio di qualsiasi soggetto, indipendentemente dalla forma giuridica (23) e dalla natura. La qualifica del soggetto che effettua la erogazione influisce, nondimeno, sul regime di fruibilità del credito di imposta, sia in punto di limite massimo del credito riconoscibile sia in punto di modalità di utilizzo del medesimo.
Alle persone fisiche ed agli enti che non svolgono attività commerciale il credito è riconosciuto in una misura massima pari al 15% del reddito imponibile, mentre per i titolari di reddito di impresa (24) il credito massimo riconosciuto è pari al 5% dei ricavi.
Il credito è ripartito in tre quote annuali di uguale importo e, per i soli titolari di reddito di impresa, potrà essere fruito anche mediante la compensazione di cui all’art. 17 g. Lgs. 241/1997 (25), senza peraltro soggiacere al limite di cui all’art. 31 d.l. 78/2010 (26), né a quello di cui all’art. 34 legge 388/2014 (27) ed a quello di cui all’art. 1, comma 3, legge 244/2007 (28).
Gli enti non commerciali e le persone fisiche potranno fruire del credito di imposta nella dichiarazione dei redditi annuale, ai fini del versamento delle imposte sui redditi, riportando la quota di credito non utilizzata per i periodi di imposta successivi, senza limitazioni temporali.
Ulteriore previsione agevolativa è, poi, contenuta al comma 3, dell’art. 1 in commento, che esclude la rilevanza del credito di imposta nella determinazione della base imponibile ai fini delle imposte sui redditi e della determinazione della produzione netta ai fini della imposta regionale sulle attività produttive, né, come precisata dall’Agenzia delle Entrate, nella determinazione della quota di interessi passivi né della quota di spese e altri componenti deducibili dal reddito di impresa, ai sensi degli artt. 61 e 191, comma 5, T.U.I.R.
Il contratto di sponsorizzazione.
L’altro strumento che si presta, come visto, ad essere utilizzato per sostenere interventi di recupero di beni di interesse storico – artistico, è il contratto di sponsorizzazione, il cui impiego è finanche favorito e promosso dallo stesso Ministero per i Beni Culturali.
Nondimeno, tale contratto sconta un trattamento fiscale ambiguo, segnato da orientamenti giurisprudenziali altalenanti e da atteggiamenti egualmente disomogenei dell’Agenzia delle Entrate, sovente mossi più dalla esigenza di contrastare usi distorti del contratto che dall’inquadramento corretto delle sua caratteristiche strutturali e causali, sussumendole entro gli ordinari criteri di qualificazione delle spese dell’impresa, con la conseguenza di scoraggiare sovente il ricorso ad esso.
Il patto di sponsorizzazione è un contratto, di origine anglosassone, atipico o innominato, che costituisce uno strumento di commercializzazione e di promozione dei prodotti dell’impresa.
Nella pratica commerciale esso si atteggia come l’accordo mediante il quale una impresa (sponsor) paga un corrispettivo in danaro, in beni o in servizi , ricevendone ln corrispettivo la pubblicizzazione del suo marchio o prodotto, da parte di soggetti estranei (sponsorizzati o, con terminologia anglosassone, sponsee) scelti in base alla loro attività e notorietà.
Con riguardo alla teoria generale delle obbligazioni e all’art. 1174 cod. civ., secondo cui la prestazione, oggetto dell’obbligazione, deve essere suscettibile di valutazione economica e corrispondere ad un interesse del creditore, è certamente possibile registrare come acquisita la natura contrattuale della sponsorizzazione in ragione del carattere patrimoniale della “commercializzazione” del nome o dell’immagine dello sponsee a fronte del pagamento di un corrispettivo e, quindi, ritenere vincolante gli obblighi assunti con il patto di commercializzazione del nome o dell’immagine.
Nella prassi commerciale sono, poi, sono emerse diverse configurazioni del contratto in parola. Si individua, così, una sponsorizzazione “tecnica”, che si atteggia come una forma di partenariato estesa alla progettazione e alla realizzazione di parte o di tutto l’intervento a cura e a spese dello sponsor, ed una sponsorizzazione “pura”, in cui lo sponsor si impegna unicamente a finanziare, anche mediante accollo, le obbligazioni di pagamento dei corrispettivi dell’appalto dovuti, nonchè sponsorizzazione “mista” (ossia risultante dalla combinazione delle prime due) in cui lo sponsor può – per esempio – curare direttamente e fornire la sola progettazione, limitandosi ad erogare il finanziamento per le lavorazioni previste.
Essenziale alla tipologia contrattuale in esame è che la controprestazione resa dallo sponsee, rivesta le forme della promozione del nome, dell’immagine, del marchio, dell’attività, dei prodotti dello sponsor e sia oggetto di un preciso obbligo giuridico gravante in capo al soggetto sponsorizzato.
Le molteplici forme in cui il contratto può atteggiarsi lo rendono uno strumento particolarmente versatile e ben adeguato all’impiego nel settore degli interventi di ristrutturazione, restauro e valorizzazione dei beni culturali.
Guardano alla causa del contratto di sponsorizzazione, che richiama un interesse alla promozione della immagine dello sponsor, esso pare riconducibile nell’ambito delle attività di pubblicità di un marchio o di un prodotto.
Come noto la legge fiscale non offre una definizione delle spese di pubblicità, ma si limita a ricomprenderle nella più ampia disciplina delle spese relative a più esercizi, salvo precisare il diverso regime fiscale della pubblicità e propaganda rispetto alle spese di rappresentanza(29).
Ed è proprio sulla riconducibilità delle spese sostenute in forza del contratto di sponsorizzazione alle spese di rappresentanza ovvero a quelle di pubblicità che si registrano le principali difficoltà applicative.
Per principio generale devono essere, comunque, tutti costi inerenti l’attività dell’impresa (cioè idonei a promuovere, in via diretta o indiretta, un incremento degli affari ovvero una utilità per l’impresa) (cfr. art. 109 c. 5 D.P.R 917/1986).
Quanto alla distinzione, entro il più generale contesto delle spese inerenti, tra le spese di pubblicità e quelle di rappresentanza un criterio ermeneutico (unico) è dettato dalla prassi amministrativa; si tratta di un criterio fondato sostanzialmente sull’esigenza di rassicurare il Fisco della serietà dell’operazione. La Ris. Min. 8 settembre 2000, n. 137/E individua e distingue:
– le spese di rappresentanza in ragione della loro gratuità, cioè la mancanza a carico dei beneficiari di un obbligo di dare, fare o permettere (art. 108 c. 2 D.P.R 917/1986). A differenza della pubblicità che reclamizza il marchio, il prodotto, ecc., la rappresentanza è diretta ad offrire al pubblico una immagine positiva dell’impresa e della sua attività in termini di efficienza, organizzazione, competitività, ecc. Le spese di rappresentanza sono interamente deducibili esclusivamente nell’esercizio di sostenimento nel limite dell’1,3% dei ricavi e altri proventi dell’attività caratteristica entro i 10 milioni di euro, dello 0,5% per i ricavi e altri proventi eccedenti i 10 milioni di euro e sino a 50 milioni e dello 0,1% per la parte di ricavi e proventi eccedenti 50 milioni di euro (cfr. DM 19/11/2008) Sono, comunque, deducibili le spese relative a beni distribuiti gratuitamente di valore unitario non superiore ad € 50,00;
– le spese di pubblicità e propaganda (tra cui parrebbero rientrano, salvo quanto appresso si dirà, i costi di sponsorizzazione) in conseguenza della loro fonte contrattuale, vale a dire che sono il corrispettivo pagato a fronte di un obbligo contrattuale di fare, non fare o permettere.
Con provvedimento di prassi successivo, in specie con la circolare 34/E/2009. l’Agenzia delle Entrate ha poi precisato che le spese di sponsorizzazione, per essere deducibili come spese di pubblicità, devono: avere come scopo quello di reclamizzare un prodotto commerciale oppure il nome o il marchio dell’impresa; essere corrisposte a fronte di un obbligo sinallagmatico del soggetto beneficiario.
Come anticipato, rispetto al trattamento fiscale delle spese di sponsorizzazione, tuttavia, le prese di posizione dell’Amministrazione finanziaria e della Corte di cassazione che si sono succedute non sono state sempre univoche e convergenti tra di loro e sono, di conseguenza, sorti diversi dubbi tra gli operatori in merito alla disciplina da applicare ai fini sia delle imposte sui redditi che dell’IVA.
Invero, come acutamente osservato in dottrina (30), le spese di sponsorizzazione sembrano divenute uno dei “cavalli di battaglia” delle riprese fiscali, per motivi che attengono da un lato alla facilità del loro rilievo (posto che si tratta di spese che lo stesso contribuente dichiara) e rispetto alle quali si formulano esclusivamente rilievi di tipo interpretativo, efficaci anche dal punto di vista del budget.
Il timore che si intravede – nelle scelte di recupero a tassazione dell’Agenzia delle Entrate, così come nelle pronunce giurisdizionali – è che lo strumento della sponsorizzazione venga piegato a finalità affatto differenti da quelle propriamente pubblicitarie, e che, specie allorchè il soggetto sponsorizzato sia soggetto ad una tassazione forfettaria, dietro una sponsorizzazione possa celarsi una retrocessione allo sponsor della somma versata.
In tale prospettiva, si sono aperti gli spazi della valutazione – da parte dell’Agenzia delle Entrate, prime, e dell’Autorità giurisdizionale, poi – della sussistenza di un interesse imprenditoriale sostanziale al contratto. Valutazione che apre ineliminabili spazi di incertezza.
Proprio il timore di un impiego distorto del contratto sembra – pur in maniera implicita – aver orientato i più recenti orientamenti della Suprema Corte di Cassazione sul tema (31), che sembra ormai consolidata nel qualificare le spese di sponsorizzazione come spese di rappresentanza (32).
Con l’ordinanza 3433 cit. la Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia rilevando che “alle sponsorizzazioni sportive si applica l’attuale art. 108 (ex art. 74, comma 2) del T.U.I.R. essendo, in tutto e per tutto, equiparate alle spese di rappresentanza in quanto effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale… (e) idonee al più ad accrescere il prestigio dell’impresa”.
Secondo la Suprema Corte costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta.
In quest’ottica, devono quindi farsi rientrare tra le spese di rappresentanza “quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale”, mentre vanno considerate spese di pubblicità o propaganda “quelle altre sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali”.
Si dismette e sconfessa, per tale via, il criterio discretivo suggerito dalla stessa A.f., e fondato sul titolo di giustificazione della spesa, per ancorare la distinzione alla utilità futura attesa dalla spesa sostenuta. Secondo la Corte, infatti, “il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, possono farsi coincidere con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto”.
Per altro verso, poi, l’Agenzia delle Entrate supporta frequentemente le proprie contestazioni allegando un difetto di inerenza delle spese di sponsorizzazione desunto dal comportamento antieconomico delle spese, sproporzionate rispetto all’utile dell’impresa ovvero inidonee a far far conseguire un adeguato ritorno sui ricavi dell’impresa (33).
Invero, rimettere la qualificazione della tipologia di spesa a concetti elastici e valutativi, che impingono nella definizione delle strategie dell’impresa e degli obiettivi imprenditoriali espone il trattamento fiscale delle scelte operative dell’imprenditore a margini di incertezza che non possono che scoraggiare il ricorso ad uno strumento giuridico che pure, come detto, si presterebbe ad un proficuo impiego nel settore del recupero e della valorizzazione dei beni culturali.
Si può tuttavia affermare, come abbiamo già innanzi rilevato che, che in linea generale le caratteristiche essenziali delle spese di rappresentanza sono costituite dalla natura gratuita delle erogazioni effettuate e dalla finalità di pubbliche relazioni, elementi questi che certamente risultano carenti nella fattispecie del contratto di sponsorizzazione; le spese di sponsorizzazione si inseriscono invece in un contratto sinallagmatico di prestazione di servizio e sono quindi sostanzialmente assimilabili alle spese di pubblicità.
Anche il Ministero, a motivo della sostanziale identità dello scopo perseguito, aveva considerato spese di pubblicità – e non di rappresentanza – non solo le spese sostenute per reclamizzare prodotti dell’azienda, ma anche quelle di pubblicizzazione del marchio d’impresa. E alla pubblicizzazione del marchio si riferiscono appunto, pur con tutti i sospetti che le circondano, le spese di sponsorizzazione.
Una ulteriore conferma deriva dal decreto del Ministro per i beni e le attività culturali del 19 dicembre 2012, contenente le norme tecniche e le linee guida in materia di sponsorizzazioni di beni culturali. In questo provvedimento, infatti, nell’allegato A è espressamente riconosciuto che “la causa del negozio atipico di sponsorizzazione è il fine di pubblicità per il quale lo sponsor si impegna a finanziare lo sponsee e a provvedere alle attività richieste da quest’ultimo”.
L’elemento distintivo del contratto di sponsorizzazione rispetto a quello di pubblicità vero e proprio, a ben vedere, è rinvenuto proprio nella maggiore idoneità di ritorno pubblicitario del primo rispetto al secondo, per il suo maggior legame tra sponsor e soggetto sponsorizzato; rileva, infatti, il suddetto decreto che “mentre per i contratti di pubblicità … l’evento pubblicizzato è mera occasione di manifestazione del messaggio divulgativo, e funge da mero contenitore e spazio di esposizione, nella sponsorizzazione si realizza un vero e proprio processo di abbinamento o di associazione, per cui lo sponsor trae direttamente dall’iniziativa sponsorizzata vantaggi promozionali ulteriori, legati alla notorietà dell’evento, con effetti potenzialmente molto più intensi o protratti nel tempo rispetto a quelli garantiti da una mera comunicazione pubblicitaria. Inoltre, se la pubblicità tende a privilegiare lo sviluppo e la creazione delle vendite del prodotto identificato dal marchio divulgato, la sponsorizzazione è uno degli strumenti più utili per creare le condizioni migliori per la vendita promuovendo l’immagine dello sponsor, e solo indirettamente i suoi prodotti”.
Altra questione, pure affrontata nell’ordinanza in esame, è quella di valutare la forza promozionale dell’abbinamento con l’iniziativa sponsorizzata, cioè la maggior visibilità che attraverso di essa è conseguita dall’azienda. Secondo la Corte, infatti, i costi di sponsorizzazione potrebbero essere fiscalmente assimilati ad una spesa di pubblicità solo nelle ipotesi in cui sussista un legame tra l’attività caratteristica dell’impresa che sostiene i costi e l’attività promozionale effettuata. Le spese di sponsorizzazione diventerebbero spese di pubblicità perché specificamente attinenti alla specifica attività dell’impresa, alle sue dimensioni, alla sua localizzazione geografica e alle sue esigenze; in sostanza dunque la natura delle spese di sponsorizzazione muterebbe in ragione della sua inerenza ed al giudizio che di questa è dato tanto dall’Amministrazione finanziaria quanto dagli organi giudiziari.
E’ chiaro, dunque, che allo stato attuale, in difetto di una definizione legislativa del trattamento fiscale delle spese di sponsorizzazione (opportunamente sollecitato come essenziale da alcuni interpreti (34)) e soprattutto in ragione del valore ermeneutico assegnato alla caratteristiche del soggetto finanziato, l’impiego del contratto nel settore dei beni culturali non può che risultare fortemente scoraggiato e sostanzialmente precluso a quei soggetti economici la cui attività di impresa non abbia specifica attinenza con il settore dei beni culturali.
(1) In tema di aiuti di Stato si veda, INGROSSO, La comunitarizzazione del diritto tributario e gli aiuti di Stato, in AA.VV. a cura di Ingrosso e Tesauro, Napoli, 2009; CARINCI, Il divieto di aiuti di Stato quale limite all’autonomia tributaria degli enti infrastatali, in Giur. Imp., 2008; DEL FEDERICO, Agevolazioni fiscali nazionali e aiuti di Stato, tra principi costituzionali e ordinamento comunitario, in Riv. Dir. Trib. Int., 2006; SALVINI, Aiuti di Stato in materia fiscale, Padova, 2007.
(2) FIORENTINO, Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, cit., 375 e ss., il quale sottolinea come “è inutile tentare, oggi come per il passato, una qualche forma di ricostruzione istituzionale fondando un approccio esegetico alla stregua di una analisi normativa, vista l’assoluta perdurante imprecisione del legislatore nel definire le diverse fattispecie sottrattive del carico tributario”; BASILAVECCHIA, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, in Rass. Trib. 2002.
(3) Deve segnalarsi come di una qualche utilità ai fini ricostruttivi che qui interessano sia la nozione di agevolazione adottata da LA ROSA, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, I, Padova, 1994, 410 e ss. Secondo il citato Autore la qualifica di agevolazione va riconosciuta in tutti quei casi in cui il legislatore introduce una spesa fiscale, usando la disciplina del prelievo per concedere in forma diretta, non mediata da un provvedimento di concessione, sovvenzioni che avrebbero potuto essere disposte anche in forme non tributarie, mediante contributi o simili erogazioni pubbliche. Questa ricostruzione ben si presta a ricomprendere le agevolazioni concesse a favore dei beni culturali entro i confini costituzionali dell’intervento statale di tutela del patrimonio artistico e culturale della Nazione, evidenziando le diverse forme che l’intervento statale può assumere.
(4) CARPENTIERI, in AA.VV. Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Milano, 2005; PIVA, Cose d’arte, in Enc. Dir., XI, Milano, 1962, 93 e ss.
(5) La prima normativa organica in tema di tutela dei beni culturali e paesaggistici risale al 1902, ed è introdotta con la legge 185 del 12 giugno 1902 e dal correlato regolamento approvato con r.d. 17 luglio 1904, n. 431. Successivamente, con la legge Bottai, n. 1089 dell’1 giugno 1939, si riaffermò una impostazione di tipo conservativo delle cose d’arte, articolata essenzialmente su un regime di vincoli e divieti di alterazione ed esportazione, fortemente ancorata alla materialità del bene. Così osserva CERULLI IRELLI, I beni culturali nell’ordinamento italiano vigente, in Beni Culturali Comunità Europea, 1994, 3, “il valore culturale di una pittura o di una scrittura, e quindi il suo essere bene culturale, è intrinsecamente legato alla cosa pittura, alla cosa scrittura, e la tutela del primo si identifica con la tutela della cosa in quanto tale…”.
(6) Ad una primigenia concezione monistica del diritto di proprietà sulle cose d’arte come diritto di proprietà sottoposto a limitazioni amministrative, successivamente alla introduzione della legge Bottai, si elaborò una concezione di proprietà funzionale che lasciava emergere la compresenza di un interesse della collettività sui beni di interesse storico e artistico come beni di interesse pubblico. In tal senso GRISOLIA, La tutela delle cose d’arte, Milano, 1952, 183 e 197 e ss., discorre di “due poteri sullo stesso bene: quello pubblico di tutela e quello privato di appartenenza…due diritti garantiti entrambi dall’ordinamento, di cui uno ha carattere funzionale, l’altro ha carattere signorile, ed appartengono il primo allo Stato ed il secondo ad un diverso soggetto”. GIANNINI, I Beni Culturali, in RTDP, 1976, 3 e ss. evidenzia, così, che su un medesimo bene materiale possono coesistere più beni giuridici, ossia più utilità, valori e diritti: il diritto dominicale, pubblico o privato, e la qualità di bene culturale, per definizione pubblica.
(7) AICARDI, L’ordinamento amministrativo dei beni culturali, Torino, 2002; CASINI, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 2001, 698
(8) CARPENTIERI, Fruizione, valorizzazione, gestione dei beni culturali, relazione al convegno Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio. Prospettive applicative.
(9) In tale prospettiva si apprezza un notevole, e spesso sottovalutato, contributo dei privati alla tutela dei beni culturali di proprietà. Come si vedrà, il legislatore, anche di recente, ha tentato di incentivare il ricorso a taluni istituti di “mecenatismo” favorendo il contributo delle imprese alla tutela e valorizzazione dei beni culturali, dimenticando, tuttavia, che il primo e principale intervento sui beni culturali è quello dei privati proprietari. Il progressivo deterioramento del regime fiscale agevolato per gli interventi di ristrutturazione e restauro mostra, appunto, la sottovalutazione dell’impegno speso dai proprietari nella direzione di una efficace tutela conservativa dei beni.
(10) Così afferma la S.C., nella sentenza 20117/2012 cit. che “la normativa fiscale di agevolazione …trova la sua “ratio” nella necessità di contemperare l’entità del tributo con le ingenti spese che i proprietari sono tenuti ad affrontare per preservare le caratteristiche degli immobili stessi”, la sentenza richiamata nega, tuttavia, in ossequio al principio di stretta interpretazione che deve presiedere la definizione dell’ambito applicativo delle norme tributarie di agevolazione, che le agevolazioni correlate a vincoli diretti apposti ai sensi della legge 1089 del 1939 possano essere estese anche ai beni sottoposti a vincolo indiretti di cui all’art. 21 della medesima legge. In termini diffusi, le SS. UU., nella sentenza 5518/2011 evidenziano come “D’altro canto, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza n. 346 del 2003, la scelta del legislatore appare “tutt’altro che arbitraria o irragionevole, in considerazione del complesso di vincoli ed obblighi gravanti per legge sulla proprietà di siffatti beni quale riflesso della tutela costituzionale loro garantita dall’art. 9 Cost., comma 2″. Ed è chiaro che questo “complesso di vincoli ed obblighi gravanti per legge sulla proprietà di siffatti beni quale riflesso della tutela costituzionale loro garantita dall’art. 9 Cost., comma 2″, non muta, ne’ nella sostanza, nè nella gravosità, a seconda della destinazione, ad uso abitativo o ad uso diverso, o anche della categoria catastale di classificazione dell’immobile che ne sia specificamente oggetto, costituendo gli immobili di interesse storico-artistico, sotto l’indicato aspetto, una categoria omogenea….È evidente che la disomogeneità che distingue gli immobili di interesse storico o artistico, da un lato, dagli immobili che non siano tali, dall’altro, e che legittima il diverso trattamento fiscale degli uni e degli altri, prescinde necessariamente dalla destinazione d’uso ed anche dalla classificazione catastale che abbiano gli immobili di interesse storico o artistico, essendo tale destinazione, o classificazione, ininfluente al fine di determinarne l’appartenenza alla categoria “protetta”. A tanto si aggiunge l’estrema difficoltà di una precisa determinazione del reddito degli immobili in questione “per la forte incidenza dei costi di manutenzione e conservazione di tali beni”. Da tali affermazioni si ricava che la ratio legis della disposizione di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, è data dalla necessità di tenere conto del fatto che i proprietari degli immobili appartenenti alla tipologia considerata dalla norma in questione debbono affrontare, nell’interesse pubblico alla conservazione dei beni culturali, costi di manutenzione così rilevanti da rendere non sicuramente determinabile il reddito effettivo: una riprova può essere data dalla disposizione di cui alla L. n. 133 del 1999, art. 18, lett. c), che conferma il principio stabilito dalla L. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, per il reddito degli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico, ai sensi della L. n. 1089 del 1939, art. 3, “inteso a tenere conto dei vincoli gravanti su di essi nonché dell’interesse pubblico alla loro conservazione”. Se ciò è vero, come è vero, ha affermato questa Corte, con orientamento che il Collegio condivide e conferma, “non avrebbe senso logico introdurre, all’interno dell’unitaria categoria degli immobili di interesse storico-artistico, una distinzione tra detti immobili secondo la loro destinazione d’uso o la loro classificazione catastale: ne’ l’interesse pubblico alla conservazione dell’immobile di interesse storico-artistico, ne’ i costi di manutenzione, finalizzati alla tutela di tale interesse, ne’ l’incertezza sulla determinazione del reddito effettivo che l’incidenza di tali costi causa, dipende (nè può dipendere) dalla diversa destinazione, abitativa o meno, o dalla diversa classificazione catastale dell’immobile. Sicché limitare l’applicazione della disposizione di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, ai soli immobili di interesse storico-artistico destinati ad uso abitativo o a quelli classificati in una determinata categoria catastale (ad es. la categoria “A”), significherebbe introdurre nel sistema una distinzione non ragionevole – tenuto conto della ratio legis della norma speciale – e optare, di conseguenza, per un’interpretazione della stessa norma che non sarebbe costituzionalmente orientata” (Cass. n. 14149 del 2009, in motivazione)”
(11) Corte Costituzionale, 28 novembre 2003, n. 346.
(12) Espressamente la sentenza della S.C. SS. UU. N. 5518/2011 chiarisce che “la tassazione degli immobili di interesse storico o artistico, ai fini delle imposte sui redditi, non è ispirata ad una regola di “a-gevolazione”, bensì ad una regola di “specialità”, cioè all’istituzione di “un regime tributario sostitutivo” di quello ordinario” di guisa che, ai fini dell’applicazione di siffatto regime impositivo non assumono rilevanza la destinazione, abitativa o non abitativa, dell’immobile soggetto a vincolo, né la circostanza che il medesimo sia locato a terzi, né la categoria catastale nella quale lo stesso sia classificato.
(13) Con la conseguenza che assumono rilevanza la qualità del soggetto proprietario o possessore, la destinazione d’uso dell’immobile soggetto a vincolo, la circostanza che il medesimo sia locato a terzi, la categoria catastale nella quale lo stesso sia classificato.
(14) In tal caso, ove l’apposizione del vincolo non sopravvenga e venga documentata nel termine di due anni dalla registrazione, si decade dall’agevolazione.
(15) E, dunque, alle medesime condizioni, previste per il caso di successione (autocertificazione vistata dalla Sopraintendenza che attesti la esistenza del vincolo e l’osservanza degli obblighi di conservazione e manutenzione).
(16) Diritti reali limitati, quali uso, usufrutto, abitazione, ovvero titoli contrattuali quali, ad esempio, la locazione o il comodato.
(17) Come osservato alla nota 3) le misure di agevolazione fiscale possono essere ricostruite come “spese fiscali”, ossia misure alternative alla sovvenzione diretta da parte dello Stato.
(18) Le liberalità, in denaro o in natura, sono deducibili dal reddito complessivo del soggetto erogatore nel limite del dieci per cento del reddito complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000 euro annui.
a. E’ necessario, altresì, che il soggetto che riceve le erogazioni tenga scritture contabili atte a rappresentare con completezza e analiticità le operazioni poste in essere nel periodo di gestione, e rediga, entro quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio, un apposito documento che rappresenti adeguatamente la situazione patrimoniale, economica e finanziaria. La misura non è cumulabile azione alle erogazioni effettuate ai sensi del comma 1 la deducibilità di cui al medesimo comma non può cumularsi con ogni altra agevolazione fiscale prevista a titolo di deduzione o di detrazione di imposta da altre disposizioni di legge.
(19) Il comma 1 del citato art. 1 d.l. 83/2014 dispone che “Per le erogazioni liberali in denaro effettuate nei tre periodi d’imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2013, per interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici, per il sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura di appartenenza pubblica e per la realizzazione di nuove strutture, il restauro e il potenziamento di quelle esistenti delle fondazioni lirico-sinfoniche o di enti o istituzioni pubbliche che, senza scopo di lucro, svolgono esclusivamente attivita’ nello spettacolo, non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 15, comma 1, lettere h) e i), e 100, comma 2, lettere f) e g), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e spetta un credito d’imposta, nella misura del:
a) 65 per cento delle erogazioni liberali effettuate in ciascuno dei due periodi d’imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2013;
b) 50 per cento delle erogazioni liberali effettuate nel periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015”.
(20) Circolare 24/E del 31 luglio 2014.
(21) Come correttamente sottolineato da SACRESTANO, Spinta al “mecenatismo” con il nuovo “art-bonus”, in Corr. Trib., 2014, 35, 2711 e ss. “deve ritenersi che il detto divieto di applicazione riguardi le sole fattispecie che possono (ora) utilizzare il nuovo Art-bonus”.
(22) Come visto in precedenza, infatti, la detrazione del 19% è riconosciuta alle persone fisiche anche “per il costo specifico o, in mancanza, per il valore normale dei beni ceduti gratuitamente”, in base ad apposita convenzione, ai soggetti e per le attività di interesse culturale sopradescritte (art. 15, lettera h-bis) del T.U.I.R.).
(23) Come innanzi visto, invece, nel regime ordinario le erogazioni liberali soffrono un trattamento fiscale differenziato; se effettuate da soggetti irpef, agli stessi è riconosciuta una detrazione nella misura del 19%, mentre per i soggetti ires la misura agevolativa è costituita dalla integrale deducibilità della erogazione liberale dalla base imponibile.
(24) La citata circolare 24/E ha, peraltro, precisato che per gli imprenditori individuali e gli enti non commerciali che esercitano, anche marginalmente, attività commerciale (e che, dunque, sono titolari anche di reddito di impresa), occorrerà distinguere al fine di determinare la misura del credito di imposta riconoscibile: se le erogazioni liberali sono effettuate nell’ambito della attività commerciale, il credito massimo fruibile sarà determinato con le modalità e nei limiti previsti per i percettori di reddito di impresa, nel diverso caso le erogazioni liberali siano riconducibili alla attività personale o istituzionale, si applicheranno i limiti previsti per le persone fisiche e gli enti non commerciali.
(25) Pertanto per le imprese il suddetto credito di imposta potrà essere fruito in compensazione in sede di versamenti per imposte sui redditi e ritenute alla fonte riscosse mediante versamento diretto, imposta sul valore aggiunto, contributi previdenziali e , premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
(26) Norma che esclude la compensazione di cui al citato art. 17 in presenza di debiti iscritti al ruolo per imposte erariali e accessori, in misura superiore ad € 1.500,00.
(27) Norma che dispone un limite generale alla compensabilità dei crediti di imposta e contributivi nella misura, a far data dall’1 gennaio 2014, di € 700.000,00.
(28) Per espressa previsione del comma 4 della norma in commento, di modo che il credito fruito potrà eccedere la misura di € 250.000,00 ordinariamente prevista per i crediti di imposta agevolativi.
(29) Il trattamento fiscale delle due tipologie di spese è definito dal comma 2 dell’art. 108 TUIR a mente del quale “Le spese di pubblicità e propaganda sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi. Le spese di rappresentanza sono deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento se rispondenti ai requisiti di inerenza e congruità stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse, del volume dei ricavi dell’attività caratteristica dell’impresa e dell’attività internazionale dell’impresa. Sono comunque deducibili le spese relative a beni distribuiti gratuitamente di valore unitario non superiore a euro 50.”
(30) VIGNOLI – LUPI, Sponsorizzazioni, riserve mentali e motivazioni esplicite, in Dialoghi Tributari, 2/2013.
(31) Una compiuta ed analitica ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali recenti in tema di spese di sponsorizzazione si rinviene in FERRANTI, Le spese di sponsorizzazione devono risultare effettivamente utili per l’impresa che le sostiene, in Corr. Trib. 7/2015, 479 e ss.
(32) Si vedano al riguardo ord. 14252/2014, ove si afferma che l’equiparazione è motivata dalla considerazione che le dette spese “sono idonee al più ad accrescere il prestigio dell’impresa, ove il contribuente non provi che all’attività sponsorizzata sia riconducibile una diretta aspettativa di ritorno commerciale”. Analoga osservazione è formulata dalla Suprema Corte nella sentenza 25100 del 2014, che pure subordina la deducibilità all’assolvimento dell’onere, da parte del contribuente, di provare che la sponsorizzazione sia idonea a condizionare le scelte dei potenziali clienti, da valutare in base alla effettività delle prestazioni, alla tipologia ed al luogo di svolgimento dell’evento sponsorizzato, alla visibilità del marchio sponsorizzato e alla congruità della spesa sostenuta. Le pronunce indicate, per vero, confermano una tendenza, già invalsa (ordinanza 3433/2012; sentenze 8679/2011, 2790/2009, 21270 e 17602 del 2008, 9567/2007). Come è stato correttamente osservato, tuttavia, la giurisprudenza della Suprema Corte si è formata con riguardo a periodi di imposta anteriori al 2008, “anno a partire dal quale ha trovato applicazione la vigente disciplina di tali spese, nell’ambito della quale è stato affermato con chiarezza che il carattere essenziale delle stesse (spese di rappresentanza, ndr)è costituito dalla mancanza di un corrispettivo o di una controprestazione da parte dei destinatari dei beni e servizi erogati. Il D.M. 19 novembre 2008, di attuazione di tale disciplina, come confermato dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 14 luglio 2009, n. 34/E – ha stabilito che le spese di pubblicità sono invece caratterizzate dalla circostanza che il loro sostenimento è frutto di un contratto a prestazioni corrispettive, la cui causa va ricercata nell’obbligo della controparte di pubblicizzare/propagandare, a fronte della percezione di un corrispettivo, il marchio o il prodotto dell’impresa”, cosi FERRANTI, op. ult. cit.
(33) Così Cass. ord. 24478/2014 ha ritenuto l’inesistenza stessa della sponsorizzazione rilevando un comportamento antieconomico del contribuente che aveva erogato un importo rilevante a fronte di una ridotta controprestazione dei destinatari dei beni erogati. In particolare la Suprema Corte ritiene decisivo osservare come “La denominazione dell’impresa figurava soltanto una volta e per di più mai sulle magliette degli atleti, come invece avveniva per altri sponsor, che pagavano addirittura importi inferiori. La ragione sociale della società era comparsa unicamente su uno striscione affisso una sola volta nella palestra”.
(34) Sul punto FERRANTI, op. ult. cit., 480, ove si evidenzia come per ovviare alle criticità emerse in sede di qualificazione delle spese di sponsorizzazione sarebbe opportuno stabilire, nell’ambito della revisione del reddito di impresa prevista nella legge delega fiscale (art. 12 legge 11 marzo 2014, n. 23), che le spese di sponsorizzazione siano equiparate a quelle di pubblicità, limitandone la deducibilità ad un certo ammontare dei ricavi dell’impresa erogante. Proposta, per vero, già avanzata da LUPI, Forzature interpretative, per sospetti di frode e “sponsorizzazioni pilotate” di terzi, in Dialoghi Tributari, 6/2013, 602 e ss., ove si osserva come “sarebbe allora forse più opportuno definire legislativamente il trattamento fiscale delle spese di sponsorizzazione, senza arbitrarie differenziazioni basate sul soggetto “finanziato”, eventualmente stabilendo un ammontare iuris et de iure deducibile – determinato, ad esempio, attraverso una proporzione tra il volume di affari e l’ammontare del costo sostenuto – e consentendo al contribuente di provare l’”economicità” dell’eventuale “eccedenza”.