Auralità aumentata e godimento dei beni culturali: percorso di fruizione ampliata per la Domus di Giulio Polibio
ECOTURISMO URBANO PER LA FRUIZIONE DEI BENI CULTURALI IN CAMPANIA
Titolo dell’incarico: Attività di ricerca nel campo del design e dello sviluppo software, con particolare riferimento alle forme di comunicazione multimediale, all’Interaction Design e alla progettazione di ambienti sensibili
Contrattista: dott. Cristian Fuschetto
Tutor: Prof. Maurizio Sibilio
Auralità aumentata e godimento dei beni culturali
Percorso di fruizione ampliata per la Domus di Giulio Polibio
Introduzione
L’obiettivo di coniugare un modello turistico-culturale di fruizione ampliata con metodologie e criteri propri della pedagogia e della didattica sperimentale, ha trovato efficacia nella progettazione di uno strumento compensativo in grado di integrare la “conoscenza per descrizione” dei tutorial più tradizionali con forme innovative di apprendimento situato.
In particolare, in risposta alle esigenze di target trasversali di soggetti caratterizzati da deficit di natura esterocettiva, si è optato per lo sviluppo di un ambiente di apprendimento di tipo acustico-sinestetico. Nello specifico si è individuato quale luogo della progettazione prototipale di fruizione ampliata la Domus pompeiana di Giulio Polibio (IX,13,1-3), già oggetto nel 2010 di un percorso multisensoriale realizzato dall’Istituto per la Diffusione delle Scienza Naturali in collaborazione con la Sezione Provinciale di Napoli dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti. La Domus (ora chiusa per lavori di restauro) gode dunque, dal punto di vista del potenziamento dell’accessibilità, di un corredo di esperienze e studi specifici tali da renderla luogo d’elezione di una nuova sperimentazione di accessibilità turistica.
Sebbene molto coinvolgente, il percorso sonoro messo a punto nel 2010 si rivela “statico” (prevede un percorso obbligato ed è basato su tecnologie “non responsive”) e quindi poco adatto al raggiungimento di una fruizione il più possibile autonoma e personalizzata del bene culturale. Lo strumento compensativo progettato dalla nostra unità di ricerca permette di superare tali criticità.
Basato su tecnologie di microgeolocalizzazione di tipo responsive e arricchito di inediti effetti e tappeti acustici creati ad hoc, l’ambiente sensibile immersivo in fase di realizzazione permetterà infatti di rendere dinamica e autonoma la visita da parte degli utenti “deboli” grazie all’utilizzo di una piattaforma integrata in un’app liberamente scaricabile su smartphone o tablet in grado di rispondere a sensori (beacon) disposti nella Domus.
Esperimento di archeologia sonora
La progettazione dell’applicazione si situa all’interno di una recente area di ricerca nel campo dell’interaction design e delle arti multimediali per tecnologie mobili incentrata sullo sviluppo di esperienze immersive e interattive di augmented aurality. Come nel caso della augmented reality, i progetti di “auralità aumentata” intendono costruire un’interazione sensoriale con lo spazio che non si sovrappone integralmente al mondo reale nel tentativo di rimpiazzarlo con un’esperienza artificiale, come invece accadeva nei progetti di virtual reality, quanto di interagire con esso integrandolo con suoni e stimoli sensoriali site specific, che entrino cioè in relazione dinamica con quanto realmente presente nello spazio e nel tempo specifici della fruizione.
Le tecnologie di geolocalizzazione e di microlocalizzazione consentono infatti, attraverso i dispositivi mobili comuni (smartphone e tablet), l’attivazione di contenuti multimediali in base alla posizione fisica nello spazio dell’utente. Nel caso della microlocalizzazione questo principio può raggiungere una precisione molto elevata, consentendo di attivare contenuti diversi anche a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro, e quindi consentendo di collegare l’attivazione di stimoli specifici – suoni nel caso di cui si sta qui discutendo – a seconda della posizione del fruitore anche in spazi molto piccoli (cosa questa che era preclusa alla tecnologia GPS).
Il progetto per la Casa di Polibio si inserisce in questo solco di sperimentazioni prevedendo per l’appunto la realizzazione di un’esperienza di fruizione aumentata dello spazio mediante il ricorso al medium sonoro, nell’ottica di mettere al servizio dell’esperienza “turistica” soprattutto la capacità del suono di lavorare sul livello emotivo e percettivo profondo del fruitore.
Integrata da una voce narrante, l’ambientazione acustica in cui è immerso il visitatore consente di reinterpretare il contesto – ovvero il bene archeologico – in un’esperienza di vita vissuta. Accompagnati da una descrizione “sinestetica”, storie, esperienze, manufatti e corpi riemersi dagli scavi diventano altrettanti “calchi sonori” della domus pompeiana. La fruizione turistica diventa in tale prospettiva un’esperienza di archeologia ed antropologia sonora proiettando l’utente nell’“ultimo giorno di Pompei”. Il percorso aumentato è sviluppato sotto forma di narrazione: l’utente vive le ultime ore di Pompei “ascoltando” e immedesimandosi con le persone che hanno vissuto e sono tragicamente morte sotto l’eruzione del 79.
Gli archeologi hanno rinvenuto ben 13 scheletri in due stanze della domus, e si stima siano sopravvissuti all’eruzione per quasi 20 ore. Tra i corpi è stato rinvenuto anche quello di una giovane donna (16-18 anni) giunta ormai alla fine del nono mese di gravidanza. Furono probabilmente proprio le condizioni della donna incinta a spingere i Polibi a rimanere in casa, evitando una fuga disperata sotto la pioggia di polveri, cenere e lapilli che stava progressivamente sommergendo la città.
L’itinerario sonoro si concentra su questa figura, che insieme a quella di altri due bimbi (sono stati rinvenuti altri due scheletri di bimbi di circa 10 anni), fa da sfondo e trama all’itinerario immersivo del visitatore.
Caratteristiche tecnico-progettuali dell’App per il percorso di fruizione aumentata
Nello specifico, l’applicazione prevede da un punto di vista tecnico/progettuale lo sviluppo di tre elementi:
1) un’infrastruttura hardware, costituita da circa 15 microtrasmettitori basati su tecnologia iBeacon e disposti nello spazio in posizioni collegate allo sviluppo della narrazione. Dal punto di vista funzionale i microtrasmettitori iBeacon presentano il vantaggio di essere di dimensioni ridotte, e quindi facilmente integrabili nell’ambiente, nonché di essere autonomi in termini di alimentazione elettrica, non richiedendo quindi cablaggio e interventi fisici di modifica dello spazio;
2) un software, ossia lo sviluppo della app in ambiente iOs e Android, che gli utenti devono installare sui loro dispositivi mobili per poter fruire dei contenuti che sono attivati dal passaggio in prossimità dei trasmettitori;
3) un processo di editing audio e di regia sonora, ossia un lavoro di montaggio, composizione e articolazione delle sequenze sonore che fanno parte dell’app; quest’aspetto prevede l’elaborazione di una narrazione non-lineare o semi-lineare, che consenta al fruitore la pienezza dell’esperienza pur nell’autonomia della scelta del percorso specifico.
Da un punto di vista contenutistico, la narrazione è invece articolata sostanzialmente su due piani o layer acustici:
1) elementi sonori di background, tessiture, suoni ambientali che determineranno il soundscape specifico di ogni spazio e anche la sua tonalità emotiva complessiva;
2) una serie di oggetti o eventi sonori individuali che subentrano nel campo acustico del fruitore all’approssimarsi dello specifico microtrasmettitore, che determina quindi l’attivazione di uno specifico frammento sonoro realizzato in stretta relazione con lo spazio reale all’interno del quale viene situato.
Il tappeto sonoro che accompagnerà il visitatore nel corso della visita alla Domus evolverà insieme ai suoi spostamenti: suoni, rumori e parole “scatteranno” a seconda della sua posizione nella domus grazie a un sistema di sensori (beacon) intelligenti. Il device (telefonino, tablet, ecc) su cui sarà installata l’app dialogherà con i sensori e, al passaggio del visitatore, farà ascoltare e dunque rivivere le azioni e le emozioni proprie di quell’ambiente.
Per lo sviluppo della fase prototipale si è optato di limitare la fruizione ampliata ai primi due ambienti della Domus: l’Atrio e la Cucina.
Atrio: Si odono suoni dalla strada, rumori dei lavori di ristrutturazione cui era sottoposta la domus al momento dell’eruzione. Con riferimento particolare ai ritrovamenti, in questo ambiente, di calce, intonaco, chiodi e martelli, utili probabilmente a sistemare l’edificio dopo il terremoto del 62 d.c.
Cucina: Sono stati riprodotti, sulla base dei ritrovamenti fatti nel piccolo vano, i suoni che potevano caratterizzare la cucina. Suoni del vasellame, di un mortaio, del fuoco acceso, di una piccola macina. Ma anche di cereali e di acqua versata. Poi, in particolare, due richiami significativi: la cottura di una pietanza a base di cervo ed un echeggiare di suoni caratteristici di spezie provenienti dall’Africa.
Relativamente a questi due ambienti il lavoro di progettazione e di editing ha riguardato i seguenti oggetti sonori:
Atrio (è utile ricordare che il ritrovamenti, in questo ambiente, di calce, intonaco, chiodi e martelli, ha fatto ritenere che fossero in corso lavori di ristrutturazione utili probabilmente a sistemare l’edificio dopo il terremoto del 62 d.C.)
Oggetti sonori
1) Campanacci
2) Carro + latrati
3) Martelli al lavoro
4) Mulino
5) Nitriti
6) Oche
7) Pala
8) Pecora
9) Pozzolana
10) Raglio d’asino
Cucina
Oggetti sonori
1) Campana
2) Duduk
3) Fuoco
4) Gatto
5) Mortaio
6) Mortaio con sale
7) Scrosciare d’acqua
8) Tortora
9) Voce bimbo in scherzo
10) Zuppa
Soundwalk nella Domus di Polibio:
Utilizzo: Usare la rotellina del mouse per scorrere in orizzontale gli elementi della simulazione e cliccare sui file audio o sulle icone nelle stanze per ascoltare i suoni.
Simulazione del percorso di fruizione aumentata e mappa della distribuzione dei singoli oggetti sonori nei due ambienti
(Atrio e Cucina)
Quadro teorico-epistemologico di riferimento
Interaction design e apprendimento situato
Il godimento e la conoscenza dei beni culturali trovano nell’interaction design e nelle arti multimediali per tecnologie mobili dei validissimi alleati. Un campo di sperimentazione particolarmente interessante è quello relativo allo sviluppo – anche tramite applicazioni mobile – di esperienze immersive e interattive di augmented aurality. Come nel caso della augmented reality, i progetti di “auralità aumentata” intendono costruire un’interazione sensoriale con lo spazio che non si sovrappone integralmente al mondo reale nel tentativo di rimpiazzarlo con un’esperienza artificiale, come invece accadeva nei progetti di virtual reality, quanto di interagire con esso integrandolo con suoni e stimoli sensoriali site specific, che entrino cioè in relazione dinamica con quanto realmente presente nello spazio e nel tempo specifici della fruizione.
Attraverso la narrazione infatti, oltre che gli oggetti, si riesce a salvaguardare una cultura orale che sembrava essere stata esclusa dalla fruizione dei beni culturali a causa delle sue caratteristiche di indeterminatezza, simultaneità e frammentazione (S. Calvarese, 2015). La radiofonia ha sempre giocato un ruolo importante nel tentativo di rendere l’esperienza di “visita” al museo un evento performativo, il primo esempio potrebbe essere Drive-in Music di Max Neuhaus (1962-68), celebre istallazione basata sull’innesto di radio trasmettitori lungo una serie di strade, che emettevano un numero di suoni udibili attraverso una radio AM in automobile, che cambiavano man mano che si procedeva. Più di recente, Determinal Verschweifungen (2004) di Thomas Kubli e Sven Mann utilizzava un sistema di trasmissione FM wireless in un’installazione in galleria in cui i visitatori venivano incoraggiati ad usare le proprie stesse radioline o quelle collocate nella galleria per interferire coi loop prestabiliti e le registrazioni dell’ambiente attraverso il sistema di trasmissione.
Seminali in questo senso sono state le ricerche e le realizzazioni dell’artista americana Janet Cardiff che, attraverso uno studio accurato dei contesti acustici di determinati luoghi urbani e mediante l’utilizzo di tecnologie di registrazione binaurale del suono, realizza delle vere e proprie narrazioni aumentate dello spazio che, attraverso voci, suoni e musiche prodotte ad hoc e fruiti mediante cuffie, accompagnano il fruitore nell’esplorazione dei luoghi, estendendone e approfondendone l’esperienza estetica ed emozionale. Altro precedente da citare è quello realizzato dal gruppo Soundwalk, operante tra Parigi e New York, che ha prodotto una serie di “audio guide d’artista” di alcuni quartieri delle due città, una serie di “passeggiate acustiche” da fruire tramite lettore mp3, che forniscono un’esperienza dello spazio urbano alternativa, una modalità di conoscenza che si distacca dalla semplice descrizione didascalica dei luoghi per lasciare spazio ad una forma di storytelling teso a lavorare maggiormente sull’attivazione emotiva del fruitore.
L’avanzamento delle tecnologie di geolocalizzazione e, più recentemente, di microgeolocalizzazione (NFC, iBeacon, ecc.) permette di portare la complessità e l’articolazione di simili progetti ad un livello successivo e più evoluto e in contesti inediti. Inoltre la progressiva disponibilità e l’accessibilità sempre maggiori di tali tecnologie ha indotto in anni recenti anche ricercatori di area umanistica, artisti e sound designers ad esplorare le potenzialità espressive dei cosiddetti locative media sonori. L’esperienza dei soundwalks, che richiama da vicino le ricerche di Raymond Murray Schaefer sul “paesaggio sonoro”, si è quindi trasferita dalla semplice riproduzione su dispositivi portatili (cd portatili, lettori mp3) di tracce sonore pre-registrate, alla possibilità di costruire esperienze di sonorizzazione e narrazione acustica dello spazio nelle quali i contenuti audio non fossero più soltanto pre-organizzati in una logica lineare e secondo un tempo predefinito di fruizione, ma disposti in modo tale che il fruitore potesse liberamente muoversi nello spazio e costruire il proprio percorso specifico all’interno di un’ampia rosa di possibili soluzioni e montaggi personalizzati. Le tecnologie di geolocalizzazione e di microlocalizzazione consentono infatti, attraverso i dispositivi mobili comuni (smartphone e tablet), l’attivazione di contenuti multimediali in base alla posizione fisica nello spazio dell’utente.
È in questo solco di sperimentazioni che si inserisce la possibilità di reinterpretare in modo radicale il concetto di godimento di un bene culturale, laddove al livello puramente (e astrattamente) cognitivo si affianca e sovrappone quello emotivo e corporeo della sua fruizione. Visitare un sito archeologico o una sua specifica area con l’ausilio di suoni e stimoli sensoriali site specific significa allora non solo vivere un’esperienza “compensativa” ma una significativa esperienza di apprendimento “situato” e “incarnato”.
Il corpo come strumento di conoscenza. Da Nietzsche alle neuroscienze
A rendere definitivo lo squarcio aperto da Friedrich Nietzsche nel soggettivismo razionalista e astratto lasciatoci in dote dalla modernità sono state, ironia della sorte, le neuroscienze. A impostare, sia metodologicamente che ontologicamente, la separazione tra mente e corpo è infatti un neuroscienziato ante-litteram come Cartesio (Strata, 2014), disperatamente alla ricerca di un fondamento mentale su cui basare la verità della conoscenza. Tuttavia per Cartesio la mente, nonostante le funzioni lasciati in dote alla ghiandola pineale, proprio non riesce e entrare in dialogo col proprio sé esteso. Nulla di nuovo: il teorico della razionalità moderna non fa che perpetuare un meccanismo collaudato da quasi duemila anni. “Con il separare nettamente i sensi dalla capacità di pensare astrazioni, cioè dalla ragione, quasi che si tratti di due facoltà completamente distinte, Platone ha distrutto l’intelletto come tale e ha incoraggiato quella separazione del tutto erronea fra “spirito” e “corpo”, la quale, soprattutto dopo di lui, grava come una maledizione sulla filosofia” (Nietzsche, 1970: p. 357), sentenzia da par suo Nietzsche nel 1873. Soltanto ora, a distanza di un secolo e mezzo da queste parole, la filosofia pare cominciare a redimersi.
Il crescente interesse delle scienze cognitive e psicologiche per i fondamenti evoluzionistici del pensiero ha infatti indirizzato negli ultimi decenni gli studi filosofici e didattico-pedagogici a indagare il ruolo delle emozioni nella riflessione sulla mente e sui processi di apprendimento. È in particolare il neuroscienziato Antonio Damasio con “L’errore di Cartesio” (Damasio, 1994) a rovesciare in modo definitivo il tradizionale approccio “top-down” connesso allo studio delle “passioni dell’anima”, secondo cui gli stati emotivi dovrebbero essere analizzati in riferimento a ciò che li accomuna al pensare in generale, e a imporre in questo senso uno studio del mentale di tipo “bottom-up”, nel cui solco le corporeità ed emotività diventano il centro di ogni gnoseologia. Dalla filosofia alla medicina, dal diritto alla pedagogia, dall’antropologia alla psicologia, oggi tutte le discipline “umanistiche” rivendicano la centralità del corpo, e nell’ambito degli studi sulla cognizione e sull’apprendimento vanno vanno moltiplicandosi le qualifiche della mente e della cognizione quali “situate”, “embodied” o “distribuite”. In tale prospettiva non c’è da stupirsi se si arriva a riconoscere che “la maggior parte delle conoscenze, specie quelle vitali, sono espresse nella struttura stessa del corpo” (Longo, 1995: p. 67) il quale non è più considerato come un semplice mediatore tra il nostro cervello e la realtà esterna, ma come un’autentica “macchina della conoscenza” (Maturana, 1995: p. 44).
Sul cosiddetto “mind-body problem” restano senz’altro pionieristici e paradigmatici gli studi compiuti dai due biologi cileni Humberto Maturana e Francisco Varela, secondo cui la caratteristica fondamentale dei sistemi viventi è data dal fatto di essere autonomi e “autopoietici”, ovvero in grado di generare e mantenere la propria organizzazione strutturale tramite la sostituzione continua dei componenti nell’interscambio con l’ambiente. L’autopoiesi è cioè una rete di processi di produzione in cui la funzione di ogni componente è quella di co-partecipare alla produzione e trasformazione di altri componenti della rete, in modo tale che “nei sistemi viventi il prodotto del loro operare è la loro propria organizzazione” (Maturana e Varela, 1980) ed essi sono, al tempo stesso, produttore e prodotto. Un sistema autopoietico si trova, dunque, in situazione di accoppiamento strutturale con l’ambiente, in modo tale che interazioni ricorrenti innescano continui cambiamenti, vincolati però dall’organizzazione generale del sistema: la sua “autopoiesi definente” (Maturana e Varela, 1973; 1980).
Concetti come quelli di autopoiesi e accoppiamento strutturale inaugurano di fatto una “epistemologia della complessità” in grado di superare definitivamente la tradizionale dicotomia tra soggetto (immateriale) e oggetto (materiale). Non solo, tale epistemologia non separa tra sistemi osservati e sistemi osservatori ponendo la circolarità costruttiva fra osservatore e osservato al centro dell’oggetto di indagine e, di conseguenza, dei processi cognitivi. Superato il positivismo, che suppone di trovarsi di fronte ad una realtà esterna precostituita e di poterla rappresentare con i diversi strumenti a disposizione delle varie scienze, la concezione costruttivista tracciata da questi studi considera la conoscenza del mondo come costruita dal soggetto. Viene così riconosciuta la circolarità inestricabile fra esperienza, azione e cognizione. In altri termini, viene riconosciuta la sovrapponibilità tra mente e corpo nella fruizione di esperienze di apprendimento.
In questo modo le ricerche di Maturana e Varela rinforzano il cosiddetto modello emergentista secondo cui sistemi dinamici complessi, ad un certo livello di complessità, mostrano l’emergenza di proprietà nuove, che dipendono dalle interazioni locali tra gli elementi, ma non sono prevedibili o deducibili a partire da esse. Ora, dal momento che il sistema nervoso è un esempio di sistema complesso, composto da un numero elevatissimo di unità di base, i neuroni, in reciproche relazioni estremamente complesse, le sinapsi, è plausibile che la mente possa essere letta come una proprietà emergente dalle interazioni neurali nel cervello. Il modello emergentista si distingue, in tal modo, sia dal dualismo che dal materialismo. Ecco perché il paradigma funzionalista, che ha goduto a lungo di grande prestigio presso le scienze cognitive, negli ultimi decenni è stato messo in discussione e sta cominciando ad affermarsi un nuovo orientamento nelle scienze cognitive, ispirato alla teoria dei sistemi e della complessità, caratterizzato dall’abbandono del classico modello dell’uomo come elaboratore di informazioni e della mente computazionale, e orientato verso una concezione della mente come proprietà emergente del corpo.
Cognizione incarnata ed “enazione”. La Neurofenomenologia di Varela
Il sistema cognitivo è cioè embodied, “incarnato” nell’interezza dell’organismo biologico, nel suo continuo rapporto con l’ambiente. Il problema della cognizione viene, così, riassorbito all’interno dell’intero processo della vita; conoscere non significa più semplicemente ricevere degli input ambientali ed elaborare una risposta, ma piuttosto la continua “generazione di un mondo”. In tal modo, il tradizionale divario cartesiano tra fisico e psichico, tra percezione ed azione, viene superato alla luce di una concezione globale degli esseri viventi, che vede la cognizione come attività dell’intero organismo biologico, come “azione incarnata” (Varela, Thompson, Rosch, 1991). Con l’avvento del modello emergentista si è intrapresa una strada di mezzo nell’avventura della conoscenza, che evita parimenti gli estremi del rappresentazionalismo e quelli del solipsismo. Varela chiama questo nuovo percorso gnoseologico “Neurofenomenologia”. Sulla base del riconoscimento della vicarianza e della complementarietà dei punti di vista nella conoscenza Varela disegna una scienza cognitiva pluralista, in grado di integrare prospettive anche molto differenti sugli oggetti di indagine. La Neurofenomenologia viene presentata,nello specifico, come una sorta di “rimedio metodologico” all’“hard problem” per eccellenza delle scienze cognitive: la spiegazione di come dall’attività neurale oggettivamente misurabile emerga l’esperienza cosciente esperita soggettivamente. Riprendendo un aspetto centrale della tradizione fenomenologica, Varela introduce nel nuovo cognitivismo post-funzionalista il concetto di enazione che, sviluppando la nozione di autopoiesi, include nella cognizione la connotazione corporea, dovuta all’esistenza di un soggetto situato che vive e manipola un mondo dal suo proprio punto di vista. La conoscenza stessa è perciò vista come enazione, intesa come “produzione di un mondo e di una mente sulla base della storia delle diverse azioni che un essere compie nel mondo” (Varela, Thompson, Rosch, 1991). Pertanto, nell’approccio enattivo-incarnato “i processi cognitivi sono visti come emergenti o enazionati da agenti situati” (Petitot, 1999) e non più come rappresentazioni simboliche di carattere puramente formale. L’azione intenzionale “incorporata” di un individuo non è, dunque, riducibile ad un evento comportamentale di tipo meccanico, e neppure ad un processo di elaborazione di informazioni tra un input e un output. La cognizione non viene più considerata come rappresentazione o come proiezione astratta, ma come “azione incarnata”, nel senso che dipende dalle esperienze derivanti dall’avere un corpo con determinate capacità senso-motorie, che sono esse stesse parte di una rete biologica e culturale più ampia.
La dimensione corporea, relegata da Cartesio alla passività di meccanismi meccanici sottoposti al controllo del pensiero, diviene così la vera base dell’agire nel mondo e, di conseguenza, della cognizione. Viene superata la dicotomia tra pensiero razionale ed esperienza concreta, perché la comprensione concettuale è “causata” dalle stesse strutture esperienziali senso-motorie: “non vi è un mondo, salvo quello che sperimentiamo attraverso quei processi che ci sono dati e che ci rendono quelli che siamo” (Varela, 1984). In questo modo, risulta possibile e legittimo compiere una “naturalizzazione” della coscienza sulla base dell’unità originaria tra il corpo vivo e la mente, conferendo a quest’ultima una dimensione concreta e, al contempo, non riducendola ad un livello di analisi non adeguato alla sua complessità.
Intercorporeità e significazione: la lezione di Merleau-Ponty
Senza affatto dimenticare, ovviamente, che nell’ambito delle teorizzazioni pedagogiche del primo Novecento, pedagogisti e filosofi dello spessore di Jean Piaget, James Dewey e Maria Montessori avevano già elaborato modelli interpretativi che collegavano il fare del corpo con i processi cognitivi implicati nelle esperienze di apprendimento, determinando così un rovesciamento radicale dell’educazione, fino ad allora essenzialmente formalistica, disciplinare e verbalistica, è senz’altro la ricerca fenomenologica del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty a decostruire (per dirla con Jacques Derrida) in modo esemplare il primato ontologico e gnoseologico della soggettività disincarnata del cogito cartesiano. Non è un caso se, nelle loro ricerche, Maturana e Varela facciano esplicito riferimento proprio agli studi del filosofo francese sulla fenomenologia della percezione e, dunque, sulla sua critica al dualismo mente/corpo.
Per una adeguata quanto necessaria contestualizzazione del pensiero merleau-pontyano, va detto che la sua critica al dualismo mente/corpo non si configura solo come il tentativo di un rovesciamento del soggettivismo cartesiano e poi kantiano. La posizione critica del filosofo si indirizza anche e soprattutto alla separazione tra spirito e materia rilanciata in quel periodo da Jean-Paul Sartre, la cui posizione viene definita da Merleau-Ponty come una filosofia dimentica del corpo e per questo come un “pensiero di sorvolo”.
È invece a partire dall’esperienza del proprio corpo, contemporaneamente soggetto e oggetto, toccante e toccato, che si sperimenta quella reversibilità tra cognizione e azione che è la chiave per capire il nostro rapporto con noi stessi e con gli altri. “Per una filosofia che si installi nella visione pura, nel sorvolo del panorama, non può esserci incontro degli altri: infatti, lo sguardo domina, può dominare solo delle cose, e se cade su degli uomini, allora li trasforma in manichini che si muovono solo per mezzo di molle” (Merleau-Ponty, 1969, p. 100). Per il filosofo la stessa condizione di conoscibilità dell’altro non è possibile se non a partire dal fenomeno dell’incarnazione. Al posto di un’opposizione netta tra soggetto e oggetto si impone la necessità di una dimensione comune “opaca”, in cui l’io e l’altro, il soggetto e l’oggetto non si danno vicendevolmente ma contemporaneamente in una dimensione pre-logica e sincronica. Tale è la dimensione dell’incontro tra coscienze, che non è più rappresentato come un confronto tra due soggettività già costituite a se stesse (che nella concretezza della vita vissuta, in verità, mai si danno come tali) ma tra quella della corporeità e della percezione, poiché il campo percettivo altrui non esclude ma include anche il mio e viceversa. Nella prospettiva fenomenologica è dunque l’intercorporeità a consentire il raggiungimento di una situazione di significanza comune: “la compresenza della mia “coscienza” e del mio “corpo” si prolunga nella compresenza dell’altro e di me”.
Merleau-Ponty non solo ricongiunge la dimensione della conoscibilità a quello dell’intercorporeità, ma intuisce anche il nesso tra intersoggettività e intenzionalità e lo fa ponendo il rapporto tra intenzione e movimento. Con argomentazioni chiaramente anticipatrici di quelle che decenni dopo sarebbero state le risultanze delle ricerche neuroscientifiche, egli scrive che “Anche il problema dell’imitazione è rimasto irrisolto fintantoché l’abbiamo posto nei termini classici; spettatore di un movimento, io divengo capace di effettuarlo a mia volta; ma per fare ciò che ho visto mi occorrerebbe una doppia conoscenza che mi manca: quella delle contrazioni muscolari del modello e quella del modo in cui io posso realizzare questa serie di movimenti […]. Tutto avviene come se le intenzioni e le realizzazioni motorie dell’altro si trovassero in una sorta di rapporto di sconfinamento intenzionale, come se il mio corpo e quello dell’altro formassero un sistema […]. Ciò che imparo a considerare come corpo dell’altro è una possibilità di movimenti per me” (Merleau-Ponty, 2005, p. 153).
Valorizzando e per molti versi facendo propri i concetti husserliani di Einfühlung e di “trasgressione intenzionale”, il filosofo francese individua nel movimento l’essenza stessa dell’esistenza. Se l’empirismo afferma un’oggettività assoluta e l’intellettualismo una soggettività altrettanto assoluta, se la scienza fa del corpo un’“esteriorità senza interiorità” e l’intellettualismo riduce il soggetto a un’“interiorità senza esteriorità”, la scoperta della dimensione incarnata e dinamica della soggettività inaugura la compartecipazione di esistenza e mondo. In particolare nella Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty riprende l’analisi del legame fra movimento e visione: i movimenti del corpo proprio possiedono un significato percettivo e formano con i fenomeni esterni un sistema di continui riferimenti e corrispondenze. Motilità, spazialità e corporeità sono sfumature di un unico gesto: il movimento del corpo sorge da e fa sorgere lo spazio. In particolare è lo “schema corporeo” più tardi definito come “schema posturale”, che rende evidente l’unione di corpo proprio, spazialità e motilità. È a partire dallo schema corporeo o posturale che “il mio corpo mi appare come atteggiamento in vista di un certo compito attuale o possibile. E infatti la sua spazialità non è, come quella degli oggetti esterni […], una spazialità di posizione ma una spazialità di situazione” (Merleau-Ponty, 2005, p. 153).
È importante notare che nella Fenomenologia della percezione il pensatore dedica un intero capitolo alla motricità, in cui il movimento è rielaborato come qualcosa che appartiene al corpo e non come essenza dell’esistenza corporea. Perché ci sia spazio, perché per me vi sia un qui, occorre che io abiti lo spazio, che io non sia in esso come una cosa, ma lo abiti col mio corpo, il mio corpo in movimento: io abito un luogo col mio corpo perché il mio corpo si muove. Ciò implica che luogo diventi sinonimo di situazione e che non esista spazio se non come mondo. La motricità è ciò che ci dà un luogo e dunque ogni luogo presuppone un corpo che vede. Movimento e visione fondano tanto l’esistenza dell’uomo nel mondo, quanto il suo potere di fare apparire il mondo: “ quest’attitudine motoria è la luce della percezione” (Merleau-Ponty, 2011, p. 125). Ma il soggetto che vede, ecco il punto, non l’“io penso”, ma il corpo. L’occhio è occhio del corpo e proprio il fatto che io sia ancorato a una prospettiva, a un luogo determinato del mondo, mi permette di far apparire il mondo. C’è un accordo che fonda il rapporto fra il corpo ed il mondo, che fa sì che ognuno chiami l’altro. Tale accordo è il movimento. Il soggetto è pensabile unicamente come sujet mobile.
Le corporeità didattiche, e nella fattispecie la mimica e la didattica basata sui gesti, gli alfabeti corporei, offrono un esempio concreto di messa in pratica di queste concezioni come strumenti di comunicazione empatica che avviene al di sotto della soglia del visibile, cortocircuitando qualsiasi modo astratto e stereotipato di didattica. La conoscenza e, con essa l’apprendimento, non è mai solo un fenomeno intellettuale, né una fusione completa con l’altro, piuttosto essa avviene nell’intercorporeità, nella consapevolezza che il mondo, attraverso il corpo, può essere partecipabile da chiunque.
In una prospettiva di matrice costruttivista, in cui il corpo e l’azione ricoprono un ruolo determinante nella costruzione di “significati”, l’intercorporeità, l’esperienza motoria e l’apprendimento assumono un valore radicalmente formativo.
Particolarmente interessante dal nostro punto di vista è il fatto che il gioco di rimandi tra visibile e invisibile descritto dal Merlau-Ponty possa essere tradotto anche nel senso dell’udibile e del non udibile. Avanza questa ipotesi uno dei più noti studiosi proprio di Merlau-Ponty, ovvero Mikel Dufrenne. “Sotto l’indice dell’udibile (…) noi (…) ritroviamo anche il tema della carne. Se suono e silenzio sono, infatti, solidali, se il silenzio è rumore di fondo, forse inudibile, ma pieno di udibile come l’invisibile è pieno di visibile, questo avviene in quanto il fondo è rumoroso e si può quindi parlare di udibilità in generale. Essere udito costituisce, allo stesso modo dell’essere visto, una dimensione del sensibile: un elemento della carne. (…) l’udibile assume tutto il suo senso: è il proprio di ciò che deve essere ascoltato e che sollecita un potere d’ascoltare. La reversibilità che definisce la carne si manifesta infatti anche nel sonoro” (Dufrenne, 2004, p. 104.). La risonanza si connette al tema dell‟intimità della nostra carne con il sonoro, di cui, come abbiamo visto, parlano Merleau-Ponty e Dufrenne: siamo esseri sonori, perciò risuoniamo e vibriamo nel sonoro, come il sonoro risuona e vibra in noi. Si ricordi a questo proposito l‟insistenza di Merleau-Ponty per il tema delle sinestesie e dell‟originaria comunicazione tra i vari registri sensoriali, per cui la separazione fra i diversi sensi avverrebbe solo a posteriori, come frutto di un‟astrazione.
Ambienti immersivi e apprendimento incarnato alla luce delle neuroscienze
Oltre agli studi filosofici, a dettare il superamento del dualismo mente-corpo e quindi a gettare luce sul potenziale cognitivo del corpo in movimento, si potrebbe dire della dimensione sinestetica del soggetto rispetto a quella astrattamente ed esclusivamente sono stati negli ultimi anni le neuroscieze grazie, in particolare, alla scoperta dei neuroni specchio. Mettendo in luce i correlati neurali dell’intersoggettività (Gallese-Ammaniti, 2014), tali ricerche hanno infatti permesso in ambito didattico-pedagogico di riconfigurare il design di ambienti immersivi come dei meccanismi di interazione cognitiva grazie a quali i discenti riescono a meglio adattarsi all’ambiente e quindi a potenziare la loro intelligenza (Carlomagno et al., 2012). Ma cosa sono i neuroni specchio e perché la loro scoperta ha esercitato (e continua ad esercitare) un grande impatto sulle scienze della formazione? Vediamo.
Verso la metà degli anni ’90, nel corso di una serie di esperimenti condotti sulla corteccia premotoria dei macachi, il gruppo di ricerca dell’Università di Parma guidato da Giacomo Rizzolatti mette in luce un fenomeno apparentemente anomalo: ogni volta che la scimmia esegue degli atti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo, per esempio afferrare del cibo, si attiva la stessa popolazione di neuroni di quando l’animale è spettatore passivo di azioni analoghe (Gallese et al, 1993). I ricercatori ne deducono l’esistenza di una modalità diretta di accesso al significato dei comportamenti altrui in grado di prescindere dallʼattribuzione esplicita di atteggiamenti proposizionali. Secondo questa ipotesi è cioè possibile comprendere direttamente il senso delle azioni di base altrui grazie ad unʼequivalenza motoria tra ciò che gli altri fanno e ciò che può fare lʼosservatore.
In una serie di studi successivi viene messo in luce che questo tipo di neuroni, chiamati “mirror” (specchio) si attivano anche quando l’osservazione dell’interazione tra la mano dell’attore e l’oggetto non è pienamente visibile (Umiltà, 1994). Non solo, nel corso degli esperimenti emerge anche che se l’azione compiuta dalla scimmia si accompagna ad un suono caratteristico, come quando si rompe una nocciolina, il solo suono dell’azione è sufficiente ad attivare i neuroni specchio. Quindi, lo stesso contenuto semantico, “rompere la nocciolina”, attiva i neuroni specchio indipendentemente dalla modalità sensoriale che lo veicola. Siamo di fronte a un meccanismo che incarna letteralmente una rappresentazione “astratta” dell’azione. Questi meccanismi cognitivi sono attivi anche nell’uomo?
Il team di ricerca risponde presto all’interrogativo attraverso numerosi studi neurofisiologici dimostrando che anche il cervello umano è dotato di un sistema di neuroni specchio localizzati in regioni parieto-premotorie omologhe a quelle descritte nella scimmia. Il gruppo di ricerca dimostra quindi che anche nell’uomo agiscono dei meccanismi neuronali che codificano le azioni osservate sugli stessi circuiti preposti a controllarne l’esecuzione. Esiste cioè anche nell’uomo un meccanismo di risonanza motoria che funge da precondizione alla comprensione del significato dei comportamenti dell’altro, configurando la stessa soggettività come un derivato dell’intersoggettività. O meglio, dell’intercorporeità. Nell’identificare questo meccanismo neurale di simulazione dei gesti e dei comportamenti dell’altro in termini funzionali, i ricercatori parlano esplicitamente di “simulazione incarnata” (gallese-Sinigallia, 2011) (embodied simulation).
Si palesa nell’uomo una corrispondenza tra “agito” e “compreso” che precede la dimensione puramente logico-rappresentativa, anzi è la stessa simulazione inconscia e automatica “scaricata” da questo genere di neuroni a rendere possibile la comprensione conscia dell’azione che si sta osservando e che quindi permette di entrare in empatia con l’altro. Al di là dei metodi, dei dati e delle risultanze necessariamente quantitative di queste linee di ricerca, quel che occorre qui mettere in evidenza è come esse leghino in un rapporto non più scindibile il fenomeno della comprensione delle azioni altrui a quello della simulazione di quelle azioni a livello neuronale, la dimensione cognitiva e quella corporea, il dominio del significato e il dominio del gesto. La simulazione incarnata mostra quanto profondamente la nostra capacità di dare un senso alla vita e ai movimenti corporei altrui sia radicata nella possibilità di ri-utilizzare le nostre risorse motorie, il che conferma la sovrapponibilità tra sistema motorio e sistema percettivo.
“L’intenzionalità motoria dell’azione – ribadiscono a tal proposito Gallese e Rochat – è incarnata nell’intenzionalità intrinseca all’azione, ossia: la sua correlazione intrinseca a uno stato finale, uno scopo. Nella maggior parte dei casi […] quando assistiamo ai comportamenti altrui, il loro contenuto intenzionale può essere direttamente compreso senza la necessità di rappresentarlo” (Gallese e Rochat, 2009, pp. 179-180). Il linguaggio, la produzione di concetti così come la loro interpretazione, non sono più configurabili come un sistema modulare chiuso, disincarnato, diretto esclusivamente a manipolare rappresentazioni simboliche. I paradigmi del cognitivismo classico, secondo cui la mente sarebbe paragonabile a un software che elabora simboli informazionali, così come quelli della psicologia evoluzionista, secondo cui la mente sarebbe un complesso di moduli cognitivi selezionati nel corso dellʼevoluzione per il proprio valore adattivo, perdono in questo nuovo scenario epistemologico il loro valore euristico. L’attivazione di meccanismi nervosi di rispecchiamento – ovvero il fatto che i neuroni specchio si attivino tanto durante l’effettuazione di un’azione quanto durante la percezione di essa – conferma infatti l’esistenza di una “equivalenza motoria tra ciò che è agito e ciò che viene percepito […]. Percepire un’azione – e comprenderne il significato – equivale a simularla internamente” (Gallese, 2006, pp. 304-305).
La capacità di comprendere gli altri esula allora da mere competenze mentalistico-linguistiche per manifestarsi come una facoltà fortemente legata alla natura relazionale dell’azione e quindi al fatto che vi sia un corpo in movimento. E se questo è vero per la comprensione, lo stesso può dirsi a maggior ragione anche per la capacità di insegnare e di imparare, un processo che può a questo punto essere a tutti gli effetti considerato embodied. Cosa si deve intendere, infatti, per “embodiment”?
“Significa che parti corporee, azioni o rappresentazioni corporee svolgono un ruolo determinante nei processi cognitivi. Stati o processi mentali sono embodied nella misura in cui sono rappresentati in un formato corporeo. Uno stesso contenuto, ad esempio unʼazione o unʼintenzione motoria, possono essere rappresentati in un formato corporeo o proposizionale. Il formato rappresentazionale corporeo precede sia filogeneticamente che ontogeneticamente quello proposizionale. Si deve anche aggiungere che non sappiamo con precisione se il formato proposizionale sia totalmente separato/separabile da quello corporeo. Personalmente sospetto che non lo sia. Ma rimane un dato di fatto che questi differenti formati rappresentazionali consentono di costruire contenuti molto diversificati.
In realtà, più che di unʼembodied mind si dovrebbe parlare di una bodily mind. Il concetto di embodiment può indurre a pensare che una mente preesistente al corpo possa successivamente abitarlo, servendosene. La verità è che mente e corpo sono due livelli di descrizione di una stessa realtà che manifesta proprietà diverse a seconda del livello di descrizione prescelto e del linguaggio impiegato per descriverla. Un pensiero non è né un muscolo né un neurone. Ma i suoi contenuti, i contenuti delle nostre rappresentazioni mentali, sono inconcepibili a prescindere dalla nostra corporeità. Possiamo indubitabilmente utilizzare forme di rappresentazione che utilizzano un formato non corporeo. Ma è difficile immaginare come lʼumano formato rappresentazionale di tipo proposizionale possa essersi sviluppato a prescindere dalla nostra corporeità. Possiamo trascenderla con il linguaggio, ma ho il sospetto che il legame con il corpo sia sempre presente” (Gallese, 2013).
Trascendendo il piano proposizionale di grammatiche e sintassi predefinite, e alla luce di concetti come “simulazione incarnata” e “risonanza motoria”, le esperienze immersive in ambienti sensibili possono senz’altro configurarsi come efficaci strumenti di potenziamento dei meccanismi della cognizione.
Moltiplicazione delle interfacce
Che il linguaggio, l’apprendimento e, più in generale, la conoscenza siano incarnate porta a un ribaltamento di prospettiva. Da un lato, “la posizione di privilegio di cui il linguaggio e il ragionamento hanno goduto a scapito della percezione e dell’azione è ora demolita.”(Alain Berthoz & Petit, 2003), dall’altro si modifica la stesa concezione di mondo.
“Noi basiamo sull’ azione, e non sulla rappresentazione, la nostra concezione dell’attività dell’organismo. La percezione non rappresenta il mondo così com’è, ma lo struttura nella Umwelt. La percezione non è subordinata ad una visione contemplativa della realtà oggettiva. Essa è strutturata per l’azione, la motiva e la prepara.[…] Non vi è alcuna percezione del mondo che non fa riferimento in qualche modo al corpo che agisce. (A. Berthoz, 2009). Il cervello impone, in direzione top-down, le sue regole di interpretazione dei dati sensoriali. In ambito epistemolgico questo processo di “ritaglio” di un mondo proprio viene definito come creazione di un Um-Welt, concetto coniato dal zoologo Jacob von Uexkull per indicare l’interfaccia proprio degli animali. Dove la scienza classica “vedeva un unico mondo, che comprendeva dentro di sé tutte le specie viventi gerarchicamente ordinate, dalle forme più elementari fino agli organismi superiori, von Uexküll pone invece una infinita varietà di mondi percettivi, tutti ugualmente perfetti e collegati fra loro come in una gigantesca partitura musicale e, tuttavia, incomunicanti e reciprocamente esclusivi”. (Agamben, 2002). La Umwelt è, dunque, un concetto dinamico, interattivo che definisce le relazioni tra mondo fisico e organismi viventi, e costituisce la base e il presupposto dell’intersoggettività (A. Berthoz, 2009). Il soggetto costruisce il suo mondo in accordo alle sue necessità basilari e ai suoi strumenti di azione, in una prospettiva che trova riscontro nella tradizione fenomenologica prima citata, da Merleau-Ponty al concetto di enazione proposto da Varela.
La Umwelt diviene, in questo senso, un’interfaccia generata dall’interazione dell’ambiente “neutro” (Umgebung) e dei principi semplificativi, che hanno carattere generale, ma che trovano (e determinano) declinazioni molto differenti a seconda dell’ “hardware biologico” in cui “girano”. Un’impostazione di questo tipo ha evidenti implicazioni sul concetto di apprendimento: l’apprendimento, quale strategia fondamentale di decifrazione della complessità, è un processo di adattamento peculiare all’essere vivente, che si sviluppa nella Umwelt. “Le abilità cognitive possono essere considerate come il risultato di adattamenti evolutivi ad un comparto estremamente ristretto del mondo come è noto a noi oggi.”(Singer, 2009). Ne consegue la possibilità di riconfigurare gli stessi ambienti sensibili come ulteriori Umwelt di cui il soggetto conoscente si serve, a seconda delle proprie potenzialità percettive, per la comprensione e costruzione del mondo.
Una nuova fruizione dello spazio culturale
Alla riconquista della soggettività da parte della res extensa contribuisce in modo decisivo l’avanzata delle nuove tecnologie e, tra le tante, il design di brain-computer interfaces. Siamo di fronte a tecnologie che prolungano gelhenianamente le facoltà del soggetto ridefinendone l’identità (Gehlen, 2003). Dal punto di vista delle teorie dell’apprendimento, sulla scorta dello Human Information Processing (H.I.P.), fino agli anni ’80 prevale una tradizione prevalentemente cognitivista che considera il computer come un istruttore universale e veicola l’idea della conoscenza come rispecchiamento della realtà. Verso la metà degli anni Ottanta invece, come osserva Antonio Calvani, “Quella particolare solidarietà tra modello della conoscenza (conoscenza come acquisizione-elaborazione di informazioni), modello didattico e di apprendimento (sequenziale e curricolare) e modello tecnologico (computer istruttore)” (Calvani, 1998, p. 34) incomincia a sgretolarsi, e i concetti di corpo e tecnologia trovano un terreno comune laddove all’idea di tecnologie della mente, ancora di stampo cognitivista, si sostituisce l’idea di tecnologie della mente/corpo. È in questo periodo che prende piede la progettazione di ambienti sensibili basati sul rapporto Uomo-Macchina (Human Machine Interface) in un contesto spaziale non circoscritto alla dimensione schermo/mouse con l’utente, ma più marcatamente orientata alla ridefinizione del corpo come nuovo “cursore” con cui muoversi nello spazio digitale/digitalizzato di un ambiente interattivo potenziato per mezzo di esperienze di augmented reality.
Da un punto di vista tecnologico, la diffusione di Interfacce Naturali, basate su devices che consentono il recupero alla Human Machine Interaction di paradigmi naturali della interazione umana (suono, voce, tatto, movimento), consente in particolare di superare la strettoia delle interfacce grafiche, il che da un punto di vista pedagogico acquista particolare rilievo circa il dibattito relativo al presunto primato della “conoscenza diretta” rispetto alla “conoscenza per descrizione, dove la prima si basa sul coinvolgimento dell’apparato percettivo mentre la seconda sulla descrizione di un oggetto (per esempio un quadro) sulla base della sua descrizione. Dibattito significativamente animato soprattutto a proposito della fruizione delle opere d’arte da parte degli ipovedenti. Molti studiosi, infatti, riconoscono l’insostituibile ruolo della vista per accedere all’apparenza degli oggetti, parlando pertanto di “verbalismo”, ossia di uso di termini concettualmente vuoti di significato nell’area dell’esperienza visiva. Altri invece, basandosi sugli studi di Noam Chomsky sul sistema innato di elaborazione sintattica, considerano il linguaggio come componente autonoma della cognizione, profilando la “conoscenza per descrizione” come compensativa dell’informazione percettiva deficitaria (Bellini, 2000, pp. 51-98).
La rinnovata visione del ruolo delle emozioni nella formazione del processo cognitivo rende di fatto superata questa contrapposizione. In particolare, Michel Meulders mette in evidenza come l’opposizione netta tra “conoscenza diretta” e “conoscenza per descrizione” faccia riferimento a una concezione ingenua di percezione, secondo la quale la percezione è un atto passivo, con cui il mondo “ci entra dentro” quando apriamo gli occhi (Meulders 2010). La percezione, invece, è un processo attivo che dipende, oltre che dall’accesso sensoriale anche dai processi interni di elaborazione. Il percepire si configura come un “vedere con la mente” che mette in gioco un terzo livello di analisi, quello della rappresentazione e dell’elaborazione dell’informazione. Un altro studioso, John Kennedy, autore di innovativi esperimenti sul disegno dei ciechi, ha mostrato come l’apparenza degli oggetti non dipenda solo dalle loro proprietà sensibili (e quindi dall’apparato sensoriale principalmente deputato a coglierle, la vista), ma anche dal sistema interno di elaborazione. La cecità è spesso solo un disturbo periferico e, se la periferia del sistema visivo è impedita, non è detto sia impedito il sistema visivo di elaborazione interno. Secondo Kennedy la visione è un processo che non riguarda solo la periferia del sistema visivo. Il sistema visivo di elaborazione interno, se opportunamente stimolato con l’utilizzo dei sensi integri (tatto, ma anche suono, olfatto, descrizione “sinestetica”), può produrre rappresentazioni della realtà proprie dell’esperienza visiva (Kennedy, 1993). Ecco allora che in questo senso, la fruizione potenziata di un luogo da parte di un non vedente rappresenta senz’altro un ambiente potenziato di conoscenza e di apprendimento. Considerato nell’orizzonte della fruizione di quel particolarissimo genere di “contesti” quali sono i luoghi artistici e i beni culturali in genere, il superamento di epistemologie dualistiche inaugura allora inediti paradigmi teorici di fruizione e innovative forme di esperienza dei beni culturali centrate sulle cosiddette “corporeità didattiche” (Sibilio, 2001), nozione particolarmente fertile in chiave euristica nella progettazione e fruizione di ambienti sensibili caratterizzati da esperienze di tipo sinestetico-immersivo.
Ringrazio il professor Claudio Rodolfo Salerno, Dario Macellaro e tutto l’Istituto per la Diffusione delle Scienze Naturali (IDSN) per aver voluto condividere la loro preziosa esperienza di fruizione ampliata della Domus di Giulio Polibio. Non solo, per avermi illustrato coi fatti l’importanza di un apprendimento “non suddito del logocentrismo”.
La realizzazione del progetto non sarebbe stata inoltre possibile senza i consigli, la competenza e il lavoro di Stefano Perna, docente Sound design presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli e ricercatore presso l’Università di Salerno.